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 2010  luglio 13 Martedì calendario

GLI STRASCICHI DEL CASO BRANCHER

 difficile parlare del Presidente della Repubblica. Il nodo problematico è la stessa posizione istituzionale del Capo dello Stato. Essa ci costringe, di continuo, ad interrogarci sul ruolo spettante al Presidente della Repubblica in un modello di democrazia che la Costituzione vuole rigorosamente parlamentare.
Siamo al cospetto di un fainéant, di un fannullone, secondo la caustica definizione che ebbe a darne, nel corso dei lavori dell’assemblea costituente, Vittorio Emanuele Orlando
La storia del nostro paese, soprattutto quella dell’ultimo trentennio, si è incaricata di smentire radicalmente questa affermazione, delineando invece una tendenza all’espansione, specialmente nei momenti di crisi, del ruolo presidenziale. Nondimeno, la posizione del Presidente della Repubblica resta ibrida, i dubbi che circondano i suoi poteri sono destinati a riproporsi, fatalmente, quasi ad ogni passaggio delicato della vita istituzionale.
Se ne è avuta un’emblematica conferma in questi giorni, nel fuoco delle polemiche sul caso Brancher. Vicenda, si dirà, che varrebbe ormai la pena consegnare agli archivi della cronaca. Non è la mia opinione. Calato, infatti, il sipario sul suo epilogo (le dimissioni dell’interessato dall’incarico di ministro per l’attuazione del federalismo) e spentasi l’eco delle polemiche politiche che hanno accompagnato anche tale atto, è giunto il momento di una più meditata riflessione proprio sul ruolo svolto dal Presidente della Repubblica in questa vicenda.
In questa prospettiva, pur nel doveroso rispetto che è dovuto al Capo dello Stato, non possono sottacersi alcuni profili di criticità nel suo operato. Lascia perplessi, ad esempio, la decisione presidenziale di diramare un comunicato stampa su quella che costituiva ancora un’indiscrezione giornalistica (come emergeva dalla stessa nota del Quirinale), ovvero l’intenzione del neoministro di avvalersi, in un processo innanzi al tribunale di Milano che lo vede imputato per il reato di appropriazione indebita, della facoltà prevista dalla legge sul cosiddetto ”legittimo impedimento”.
Ancor più sorprende il contenuto del comunicato, giacché precisava (quasi a neutralizzare un possibile argomento utilizzabile dalla difesa dell’imputato, per giustificare la richiesta di un differimento del processo) «che non c’è nessun nuovo Ministero da organizzare in quanto l’on. Brancher è stato nominato semplicemente ministro senza portafoglio».
Sarebbe, infatti, toccato al giudice dell’udienza preliminare valutare (sulla base di quanto indicato dai legali dell’imputato, nel contraddittorio con il pubblico ministero) la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della legge sul legittimo impedimento. Pertanto, l’iniziativa assunta dal Capo dello Stato (tanto più singolare, se si considera che tra i suoi compiti vi è anche quello di presiedere il Consiglio superiore della magistratura) ha oggettivamente inciso su di un (delicato) momento processuale, che avrebbe dovuto essere interamente rimesso al giudice ed alle parti del processo.
In ogni caso, poi, l’ultima parola sulla vicenda (ove il giudice milanese avesse negato, in ipotesi, la legittimità dell’impedimento fatto valere dall’imputato/ministro) sarebbe potuta spettare alla Corte costituzionale, investita dal Governo attraverso lo strumento del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Ma ciò che più stupisce, nel riconsiderare l’intera vicenda, è l’insolito attivismo dimostrato dal Quirinale, il quale ha ritenuto di esprimersi (sebbene altri fossero, in verità, i soggetti istituzionalmente gravati da una simile responsabilità) pur in mancanza di un atto formale il cui compimento giustificasse il suo intervento.
Certo, si dirà, il Capo dello Stato è il garante del corretto funzionamento delle istituzioni e la prassi costituzionale, anche a questo scopo, ha portato all’affermazione di un suo generale ed ampio potere di ”esternazione”, ovvero di dialogo con l’opinione pubblica (il Presidente Cossiga, si ricorderà, ne fece larghissimo uso). Tuttavia, paradossalmente, il ricorso ad un simile argomento (per spiegare una sortita che forse è anche frutto di sottovalutazione delle sue insidiose implicazioni, da parte dell’entourage del Quirinale) potrebbe risolversi in un boomerang per il Presidente Napolitano. L’iniziativa assunta nel caso Brancher, messa a confronto con l’estrema prudenza manifestata dal Capo dello Stato (che, peraltro, condivido pienamente) nell’esercitare uno dei suoi poteri cruciali, quello di promulgazione delle leggi, rischia, infatti, di offrire argomenti proprio a quei «professionisti della richiesta al Presidente di non firmare», oggetto recentemente della garbata, ma ferma, critica dello stesso Presidente Napolitano.
Difatti, una volta che il Capo dello Stato rivendichi a sé (in quanto garante del corretto funzionamento delle istituzioni) un ampio potere di intervento, anche in vicende alle quali è sostanzialmente estraneo, appare difficile comprendere il mantenimento di una condivisibile prassi che limita il rifiuto della promulgazione soltanto al caso in cui la legge presenti evidenti profili di incostituzionalità.
Proprio il riconoscimento del ruolo di garante anche «politico» della Costituzione finirebbe, infatti, con il condurre il Presidente della Repubblica - come teorizzato in passato dal grande costituzionalista Livio Paladin, a subordinare l’esercizio del potere di promulgazione a sue «libere valutazioni», che tengano, dunque, conto «non solo dell’esigenza di far osservare la Costituzione, ma anche e soprattutto dei riflessi che il fatto di esercitare o non esercitare il potere in questione potrebbe produrre sul complessivo funzionamento delle istituzioni, cioè sul vero oggetto della garanzia che al Presidente è affidata».
Problemi tecnici, si penserà, ma che comunque confermano quanto sopra si diceva: non è facile per nessuno parlare del Presidente della Repubblica, ma forse lo è ancora di più per quanti ( i consiglieri e i tecnici del Quirinale) hanno la responsabilità di parlare al Presidente della Repubblica.
* avvocato penalista