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 2010  luglio 13 Martedì calendario

FEDELTA’ AL CAPO


Giuliano Ferrara ha davvero facile gioco a ironizzare sulla vicenda grossolana e pasticciona, smandrappata e rozza, che vede protagonista ”la nuova P2” (o ”P3”). In effetti, questa trama tutta in chiave energetica (Carboni-eolico) può richiamare una sceneggiatura di Totò e Peppino: ma perché mai Denis Verdini ha voluto a tutti i costi interpretarvi la parte del caratterista Tiberio Murgia? (O meglio: per restare nell’enclave toscana, il ruolo di Giovanni Nannini nella strepitosa maschera di Celestino Piselli in ”Totò cerca pace”). Perché questo è il punto e non lo si può eludere col ricorso all’ironia, e nemmeno richiamando l’attenuante rappresentata dal fatto che, quella patacca, Flavio Carboni l’abbia già venduta in passato a Carlo Caracciolo e Carlo De Benedetti. Si può sostenere, al contrario, che ciò costituisca un’aggravante, in quanto è difficile oggi dire: ”Io non sapevo”. Non solo: ciò che rende incomparabili le due situazioni è il fatto che Caracciolo e De Benedetti fossero due imprenditori, ovviamente liberi di far affari con chi meglio garbasse loro e, di conseguenza, di ricavarne profitti o danni di immagine. Verdini, invece, è uno dei tre coordinatori del più importante partito politico italiano. E qui, evidentemente, si aprono immensi spazi di speculazione a proposito della possibilità di decifrare gli abissi dell’animo umano. Perché mai  Verdini deve agire come una commessa che ha intascato furtivamente qualche resto mentre la padrona guardava dall’altra parte? Io, una spiegazione, ce l’ho: e contraddice quella ”impetuosa e felice novità” che, secondo Ferrara, Silvio Berlusconi avrebbe introdotto nel sistema politico italiano. Consideriamo, appunto, quei tre coordinatori del Pdl: ma è mai possibile che due tra essi presentino un curriculum  politico e culturale, quale quello di Sandro Bondi e, appunto, Verdini? Un curriculum, se si vuole, rispettabile, ma destinato a tutt’altre funzioni che non la politica. E si può odiarla a tal punto, la politica, fino a mortificarla attribuendo la massima responsabilità del Pdl a due figure apicali (si dice così, ahimè) con quegli interessi personali e con quelle attitudini professionali? La politica tradizionale (meglio: classica) ha tutti i difetti del mondo e molti corrispondono esattamente a quelli denunciati da Berlusconi (che, pure, omette di segnalare tutti gli altri, et pour cause). Ma quella stessa politica affonda le sue radici nella vita sociale e nei comportamenti collettivi. Se lo si ignora ci si ritrova, poi, a esaltare la Lega e il suo ”insediamento sul territorio”. Quella fondazione della politica classica nella vita materiale degli individui è fatta di voto di scambio e di consenso manipolato, di proselitismo e di corporativismo, ma anche di altre essenziali risorse, tutte radicate nelle domande collettive e nelle risposte differenziate che ogni soggetto politico offre loro. Col trascorrere dei decenni, dal secondo Dopoguerra a oggi la politica ha visto restringersi la sua base di militanza e di partecipazione, ha profondamente modificato linguaggi e stili, ma non ha perso – non poteva perdere – la sua radice fondamentale: la sua relazione con bisogni che chiedono di essere soddisfatti. Qualunque processo di liofilizzazione della politica, nel senso della mediatizzazione emozionale o in quello del dispotismo tecnocratico, conserverà comunque una sua connessione con la vita vera.
Da qui non si scappa. Lo stesso Pdl è un partito-azienda sotto il profilo delle relazioni giuridiche e dei rapporti gerarchici che lo fanno dipendere dal suo fondatore-proprietario: ma è un tradizionalissimo partito di massa per quanto riguarda la sua capacità di rappresentanza sociale. Berlusconi ha creduto di poter scindere le due dimensioni, trascurando quella funzione di rappresentanza sociale e costruendo sulla struttura giuridico-economica della propria impresa politica una comunicazione, una leadership, un’azione pubblica anch’esse di ispirazione imprenditoriale. Da qui una selezione dei gruppi dirigenti totalmente sottratta alla competizione politica e all’esperienza della militanza e della raccolta del consenso. Il risultato è Bondi-Verdini. Se questi ultimi non sono l’esito di una lotta politica, bensì di un test di fedeltà e di una procedura di cooptazione, è fatale che, arrivati al vertice del primo partito italiano, si dedichino ad altro: l’uno a intrattenersi con Flavio Carboni e con altri protagonisti dell’eterna commedia italiana, l’altro a coltivare il culto della personalità del ”piccolo padre”. (Troppo facile sorridere con superiorità di quest’ultima mansione: è dignitosissima, e ricorrente in tutti i regimi carismatici, a patto di non confonderla con quella di direzione politica). Poco importa, a ”sto punto, se ”la P3” sia un pericolo reale (innocua, certo non è): politicamente, è l’ulteriore certificato di un fallimento. E poco importa se Verdini sia responsabile o meno di fatti penalmente rilevanti. In proposito suona comica la solenne dichiarazione di Ignazio La Russa: ”Siamo garantisti. La cultura del Pdl non è il giustizialismo”. Ah sì? Devo essermi proprio distratto in questi ultimi anni.