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 2010  luglio 13 Martedì calendario

ANNI MIGLIORI

«La fotografia è solo un mezzo di scrittura, quello che voglio fare emergere è il mio pensiero», dice Nino Migliori mentre si aggira tra le foto che sessant’anni fa ha scattato in giro per l’Italia e ora sono stampate in grande formato per la mostra al Vittoriano. Nelle cento immagini esposte, tra le quali molte inedite, l’artista bolognese dipana infatti un lungo racconto: non solo della gente e dei luoghi del passato, ma al tempo stesso di come lui li ha visti, cercando non solo di immortalare l’attimo dello scatto ma la lunga storia che ha segnato ogni persona e ogni oggetto rappresentato. Fin dal 1948, quando ha iniziato a usare la macchina fotografica, Migliori non ha fatto altro che sperimentare: dalle astrazioni dell’«off camera» alla manipolazione delle polaroid, dalle sovraimpressioni al fotomontaggio, dalle bruciature alle ossidazioni. Il periodo a cui si riferisce la mostra, intitolata «Il passato è un mosaico da incontrare. Ritorno agli anni Cinquanta», è quello generalmente denominato neorealista. Migliori ritrae le genti del sud, quelle dell’Emilia e del Delta del Po, la loro povertà di sopravvissuti a una guerra finita da poco. Ma questi ritratti non sono soltanto realisti, l’artista riesce a infondervi la sua visione del mondo ed è una visione ironica e non priva di gioia, che si confonde con la gioia di un popolo finalmente uscito dall’incubo, felice di essere vivo.
«Avevo 22 anni quando è finita la guerra», ricorda. «Dopo aver vissuto per tanto tempo nascosti in un buco, con la paura delle bombe e dei rastrellamenti, di non avere l’acqua e il cibo, improvvisamente si ritornava alla luce ed era tutto meraviglioso, perfino un pezzo di muro, un fiore selvatico, un raggio di sole, un vestito nuovo. Cominciai ad andare in giro con la macchina fotografica e a riprendere tutto quello che vedevo. Scattavo ogni volta che una situazione mi faceva sorridere». Documenta così l’immagine di un paese illuminato dalla speranza. Sorride il prete che brinda con il tovagliolo appeso sull’abito talare, sorride il fotografo di paese che riprende la piccola comunicanda, sorridono meste e serene le vecchiette sedute in conversazione sui gradini di pietra, e i bambini che giocano in mezzo alla strada.
In altre immagini si percepisce la sua frequentazione di pittori come Giorgio Morandi, Emilio Vedova e Tancredi. «Mi trascinarono a casa di Peggy Guggenheim a Venezia. La prima volta che vidi Peggy mi colpì la sua bruttezza, il viso duro. Poi la sua intelligenza», ricorda ridendo. La ritrasse nell’intimità del palazzo veneziano, in una sequenza di foto rimaste famose. «La casa era veramente diversa da tutte quelle che ero solito frequentare. Si adattava proprio come un abito a Peggy, dalla personalità determinata e mutevole, enigmatica e prevedibile al tempo stesso. Le opere d’arte non erano appese ad un muro per decorare, ma facevano parte di un tutt’uno e si trasformavano in ambiente creando forti emozioni e suggestioni». Fu lì che vide per la prima volta i drapping di Jackson Pollock. Era il 1958 e Migliori aveva appena finito il suo «viaggio in Italia». Girava da solo. Il sud, al quale è dedicata un’intera sezione della mostra, lo affrontò con due amici: «Loro avevano un furgoncino e partimmo con quindicimila lire a testa e il sacco a pelo. Dormivamo per terra, o nel furgoncino se pioveva. In un mese abbiamo attraversato tutto il meridione, senza un programma definito. In Calabria ci arrampicammo fin sulla parte alta della Sila. Di notte e al mattino presto si avvicinavano i lupi. Ci guardavano negli occhi prima di allontanarsi. I pastori ci vendevano mozzarelle meravigliose. C’erano posti indimenticabili, come il villaggio di Palla Palla, con 32 segherie e un generatore a motore che dava la corrente a tutte le case San Giovanni in Fiore».
Oggi Migliori continua a lavorare: «Sto facendo una serie di sperimentazioni sulla tridimensionalità della luce, che offre novità enormi. Pensi ai led, alle pareti e alle vernici luminescenti. E siamo solo all’inizio».
Lauretta Colonnelli