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 2010  luglio 12 Lunedì calendario

LA CINA VA ALLA CONQUISTA DEI MARCHI MADE IN ITALY

La Cina è vicina. Anzi, è qui. A comprare e valutare se c’è qualche nuova perla del made in Italy da acquistare. L’ultima in ordine di tempo è Gianfranco Ferré. Dopo la pubblicazione dei bandi per l’offerta d’acquisto (16 giugno scorso) il quadro è chiaro: vicino alla coreana Samsung, tra i potenziali pretendenti c’è il colosso cinese Ling Yun. Facile comprendere la ragione: se per gli europei la sfida Ferré risulta impervia (non figurano tra gli offerenti gruppi occidentali), per gli orientali, nella fattispecie i cinesi, accaparrarsi un brand del genere significa fare leva su un immaginario ancora fervido per strutturare il business sui loro mercati. E il mercato della Repubblica Popolare conta ormai 200 milioni di abbienti, accanto alla sessantina di milioni di ricchi veri.
Certo, prima di mettere le mani su Ferré il management di Ling Yun dovrà passare sotto le forche caudine dei commissari, pronti a vigilare sul piano industriale, la natura dell’operazione finanziaria e solidità del business plan. Ma il gioco per i cinesi vale la candela. E il perché lo spiega l’avvocato veneziano Gianluca d’Agnolo, socio dello studio Chiomenti nonché responsabile della sede di Pechino: «I cinesi hanno una grande liquidità derivata dal surplus della bilancia commerciale. Banche, grandi imprese e fondi sovrani, invece di sottoscrivere titoli del debito pubblico negli Stati Uniti, hanno cominciato a diversificare, comprando attività produttive». Uno dei primi casi, nella moda, è stata la Sergio Tacchini, finita nelle mani del gruppo Hembly di Billy Ngok. Da marzo circola la notizia dell’interesse del gruppo Dongxiang per la torinese Basicnet, titolare della Robe di Kappa (oltre ad altri brand tra cui Superga e K Way): si vocifera di un’opa che il gigante asiatico avrebbe intenzione di avanzare su Basicnet, con cui già vanta una collaborazione avendo acquisito i diritti del brand Kappa per mercati di Cina e Macao (con enorme successo commerciale).
Insomma, la ricerca si fa serrata e a confermarlo è Stefano Petricca, titolare della Petricca Merchant bank di New York, che insieme alla DC di Londra è advisor di alcuni gruppi cinesi a caccia di made in Italy: Li Fung, Bosideng, Esprit. «I dossier aperti sono diversi e alcune trattative sono in corso da tempo». Petricca menziona «un’operazione che coinvolge un gruppo italiano da oltre 600 milioni di euro, in fase avanzata», senza specificarne il nome. Ma secondo insistenti voci di mercato si tratterebbe del gruppo Sixty. «I cinesi prediligono entrare nel capitale di holding che controllano marchi di moda – spiega ancora il merchant banker – con l’obiettivo di ottenere la leadership nello sviluppo delle operazioni commerciali, soprattutto sui mercati orientali, in cui naturalmente hanno posizionamento e forza retail assolute».
Ci sono anche casi di joint venture virtuose, in cui i cinesi mettono i capitali e gli italiani la creatività. Uno su tutti, quello di Luca Berti, noto designer del jeans, che ha creato una società insieme a Mr Gordon della Vigoss di Guangzhou. Un milione di capi prodotti al mese, 15mila dipendenti, 230 milioni di fatturato, Vigoss ha dato fiducia a Berti di cui già conosceva la professionalità. «Non è facile – conferma il designer – che un imprenditore cinese ti metta i soldi in mano e ti affidi lo sviluppo del business». In questo caso, il business si chiama Lerock: etichetta di jeans molto glamour. Per portarlo avanti, Mr Gordon ha fondato con Berti la Cristall, in quel di Ferrara, mettendoci l’80% delle quote. E si è fidato del creativo che in curriculum ha un centinaio di consulenze per marchi come Diesel, Parasuco, Replay. «Hanno accettato logiche che per un europeo sarebbero difficili: un investimento tra l’uno e i due milioni di euro, con break even a due anni. E la produzione di un forte stock da mettere a magazzino per i riassortimenti». La formula funziona: «A break even ci stiamo arrivando in metà tempo, rispetto al previsto. Ma per fare cose del genere ci vuole grande liquidità», chiosa il creativo ferrarese.
Se i cinesi sono diventati abili nel comprare o fare partnership con le aziende made in Italy, i nostri imprenditori non lo sono altrettanto. «Gli italiani sono in ritardo. Non conoscono ancora in profondità la cultura cinese. Troppe semplificazioni, troppi luoghi comuni impediscono, soprattutto alle piccole e medie imprese, di fare business con i cinesi», spiega Francesco Boggio Ferraris, responsabile della Scuola di formazione permanente di lingua e cultura cinese della Fondazione Italia Cina, invitato all’interessante convegno "D4F (Diversity for the future) – Italia e Cina a confronto", organizzato dall’Aiesec Milano Cattolica. «L’Aiesec è un’organizzazione studentesca internazionale presente in oltre 110 paesi del mondo – spiega Giovanna Mazzotta vice presidente talent management di Aiesec Milano Cattolica – che collabora con le aziende internazionali, da un lato per trovare posizioni di stage aziendali agli studenti, dall’altro per formare e sviluppare le doti di leadership necessarie a ricoprire i ruoli manageriali». E l’ex Celeste Impero è uno dei mercati più appetibili su questo fronte.