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 2010  luglio 13 Martedì calendario

LE LAUREE DEL FUTURO

Primo il Politecnico di Torino, seconda l´università di Trento. E terza quella di Bologna. La classifica delle università italiane comincia così. E anticipa una sfida per la supremazia del sapere universitario in cui Torino potrebbe vedersela con Cambridge, Trento con Valencia, Bologna con Parigi. Perché nel mondo globale le università migliori sono quelle capaci di guardare fuori dai confini nazionali, quelle che sanno creare un clima cosmopolita, sia fra i ragazzi sia fra i docenti: italiani che vanno all´estero, stranieri che vengono in Italia, studenti con la valigia, la classe dirigente di domani. Andare all´estero è una scelta dove pesano voglia di fare un´esperienza di vita e di cultura, di migliorare la seconda lingua, ma soprattutto di trovare qualità accademica.
Nelle università italiane gli studenti stranieri sono cresciuti più del 45 per cento tra il 2004/05 e il 2008/09: da 38.298 a 55.731, secondo i dati più aggiornati del ministero dell´Università e della Ricerca.
Una crescita costante che diventa fenomeno: il bisogno di un nuovo tipo di formazione con un respiro almeno europeo. Per questo le classifiche degli atenei italiani più internazionali meritano uno sguardo più approfondito. Ma chi decide chi vince e chi perde? A dirlo è la Grande Guida Università che sta per uscire: l´internazionalizzazione è una delle categorie che il Censis servizi, autore del ranking su incarico di Repubblica, valuta da alcuni anni per redigere le classifiche generali. Il Censis servizi dà i voti, che hanno validità scientifica, solo su dati certi e verificabili, come spiega il direttore Roberto Ciampicacigli: «Per ogni ateneo abbiamo esaminato quanti sono gli studenti stranieri iscritti, quanti studenti italiani escono dall´Italia con una borsa Erasmus, quanti studenti stranieri arrivano sempre con una borsa Erasmus e quanti soldi l´ateneo spende per la mobilità internazionale di ciascuno dei suoi studenti». Erasmus, acronimo di European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, è il più popolare programma europeo che consente di compiere una parte dei propri studi all´estero: gli esami sostenuti fuori sono automaticamente riconosciuti dall´ateneo di origine. «Ma accanto a Erasmus - osserva Ciampicacigli - l´Unione europea finanzia Erasmus Mundus, un programma che vuole aumentare l´attrattività delle università europee su scala globale, ed esiste un progetto europeo per valutare non solo gli atenei, ma i singoli saperi, che in Italia sono organizzati nelle facoltà: tutti chiari indizi che la competizione universitaria sarà sempre più su scala internazionale».
Rettori e presidi sanno bene che le università più desiderate sono quelle che conteranno di più, ma in palio non ci sono solo gli studenti, bensì importanti finanziamenti. Fra i dati elaborati dal Censis ci sono anche i soldi che affluiscono nelle casse accademiche, con un confronto significativo: fra il 2006 e il 2008 le università hanno ottenuto circa 254 milioni di euro per i Programmi di ricerca di interesse nazionale (Prin), mentre i soldi incassati nello stesso periodo per la ricerca internazionale sono stati il doppio: 505 milioni di euro. Tirati fuori dall´Unione europea e da università straniere, istituzioni internazionali, imprese, organismi non profit. Morale: la ricerca nazionale vale 4.200 euro per ogni docente, quella internazionale 8.500. Il grosso della torta va al settore tecnico-scientifico, con 325 milioni di euro, mentre 121 milioni vanno a quello medico-sanitario e appena 58 a quello socio-economico. Essere vincenti a livello internazionale significa quindi avere più studenti, più soldi, più potere, più prestigio.
E dal punto di vista degli studenti? Andare all´estero frutta una formazione migliore e più spendibile sul mercato del lavoro? L´osservatorio più attendibile per dirlo è Almalaurea, il consorzio interuniversitario che mette in contatto gli studenti con il mondo del lavoro e che nella sua banca dati raccoglie il profilo di circa il 75 per cento dei laureati. Almalaurea esamina il rapporto fra formazione all´estero e mercato del lavoro nella periodica Indagine sulla Condizione occupazionale dei laureati. Il direttore Andrea Cammelli lo sintetizza così: «Un´esperienza di studio all´estero come Erasmus non rende più facile trovare lavoro. A un anno dalla laurea, addirittura, appare il contrario: lavora il 53 per cento di chi non ha alcuna formazione all´estero contro il 51 di chi la possiede. Tuttavia a cinque anni il dato si capovolge: 85 per cento di occupati contro 89 per cento. E per valutare bene occorre aggiungere altri elementi: chi ha studiato all´estero, già al primo impiego guadagna il 7 per cento in più, e la differenza aumenta negli anni successivi, inoltre chi ha studiato all´estero si dichiara più soddisfatto di quello che fa, segno che è riuscito più spesso a ottenere un lavoro affine ai propri desideri». Ad Almalaurea, che offre i curricula della propria banca dati alle aziende, risulta che «le imprese italiane considerano ancora poco le esperienze di studio all´estero, mentre per quelle straniere hanno maggior peso». E cita come esempio l´eccellente curriculum di una giovane che si è laureata benissimo a Tokyo e che per ora si è dovuta adattare a fare la receptionist in un albergo di Ostuni.
Anche gli studenti hanno le loro colpe, visto che non sempre prevalgono le ragioni di studio: il Paese straniero preferito dagli italiani è la Spagna (scelto da 6.460 studenti Erasmus nel 2009), seguito molto di lontano dalla Francia (2.748) e dalla Germania (1.752), ed è legittimo chiedersi quanto abbia pesato la qualità dell´insegnamento e quanto altre attrattive. Un valore aggiunto che a maggior ragione dovrebbe avvantaggiare l´Italia, con il suo appeal turistico, artistico e culturale. Per quanto riguarda l´insegnamento, le classifiche internazionali più note assegnano ai nostri atenei posizioni poco entusiasmanti, anche se al Censis ridimensionano la débâcle. «Questi ranking sono più rudimentali rispetto a quello che elaboriamo noi - commenta Ciampicacigli - si basano su pochi parametri, in alcuni casi molto discutibili: per esempio l´Academic Rankings of World University di Shanghai premia le università che hanno generato più premi Nobel, e quasi tutti attribuiscono molto peso all´Impact Factor, un indice che stabilisce l´importanza di uno studio in base al numero di citazioni ottenute sulle riviste scientifiche, criterio che di per sé avvantaggia i settori tecnici, scientifici e sanitari e comunque la produzione in lingua inglese».
Ma la competitività dell´università italiana può certamente migliorare. «Certo. E con un´analisi territoriale abbiamo verificato che le università a maggior margine di miglioramento sono quelle del Sud, che tanto per cominciare devono lavorare per fare riconoscere le lauree che rilasciano anche all´estero. Per tutte, comunque, la ricetta è semplice: spendere di più sull´internazionalizzazione, fare marketing sulle eccellenze che ci sono già, per esempio ingegneria, vulcanologia e certi settori dell´area medica, e poi coltivare le eccellenze possibili. Invece di cercare di recuperare dove la partita è comunque persa in partenza a causa dello svantaggio accumulato, conviene investire dove l´Italia ha già una vocazione o una buona base da cui partire». Come l´enogastronomia, il turismo, l´arte e l´archeologia, la lirica.