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 2010  luglio 11 Domenica calendario

ICONA LEOSINI, LA NEMESI DELLE STORIE MALEDETTE

Storie maledette è ormai un programma cult di Raitre (la nuova stagione va in onda il sabato in seconda serata); la sua conduttrice Franca Leosini ha scatenato negli anni un’orgia di definizioni e di identificazioni simboliche, fino a diventare un’icona camp: dalla zia severa ma giusta alla dominatrice sadomaso. Ora, con l’avanzare dell’età, è diventata piuttosto il logo di se stessa: l’astratto volto della Nemesi. Nella prima puntata, chiusa in un gessato dal taglio maschile, intervistava Rosalia Quartararo, una signora grassottella che nel 1993 ha ucciso la figlia («la mia piccolina»), pare per un movente di gelosia.
Anche il programma, con il passare del tempo, si è asciugato: a parte un’indispensabile breve riassunto dei fatti all’inizio, con immagini di repertorio, per il resto nessuna ricostruzione filmata - solo l’implacabile faccia a faccia tra detenuta e conduttrice, sullo sfondo di sbarre stilizzate. Il personaggio di Rosalia si disegna pian piano, nella sua disperata ambiguità: infanzia terribile, stuprata dal fratello e messa incinta da lui a dodici anni; per sfuggire al padre si sposa prestissimo con un ubriacone che la picchia; di nuovo in fuga, al Nord trova un «buon uomo» che certo non la affascina ma le garantisce tranquillità; poi le figlie si fanno grandi, la minore ha un amante che ha l’età della madre; madre e figlia litigano, «lascialo, ti rovina»; la madre afferra uno spazzolone, poi gli orribili dettagli e l’ergastolo. Ma niente è sicuro, quella che abbiamo è solo la versione dell’assassina: che forse ha mitizzato la propria infanzia esagerandone gli incubi e punteggia le atrocità della storia con astuti «non ricordo» ed «ero fuori di me». Nel viso pienotto e affabile gli occhi sono quelli sfuggenti di un’omicida probabile, che pure è sincera quando piange e ripete che vorrebbe tanto riavere la figlia accanto a sé. Attrice e vittima, Rosalia dice «mi sento un mostro» sperando di essere smentita.
La tivù ci invade ogni giorno di queste storie estreme; bisogna riconoscere alla Leosini, oltre a una professionalità impeccabile, un’insolita capacità di rispetto. Non tanto (o non solo) rispetto per il colpevole che ha davanti, ma soprattutto rispetto narrativo: per un romanzo che non c’è e che non si cerca di supplire, banalizzandolo. Siamo pieni di noir che si incollano artificialmente alla realtà, anticipandone i ritmi con cadenze stereotipe e togliendo alla realtà stessa ogni spazio per manifestarsi; la Leosini ascolta, e nell’ascolto c’è l’attesa di qualcosa di più grande. Nessuna esibizione di sentimenti da parte dei colpevoli, anzi menzogne difensive e ostilità; che la Leosini riflette come uno specchio neutro, o come uno psicanalista di buona scuola.
Non è un caso che Storie maledette abbia ispirato scrittori e registi: la struttura così elementare del programma è una spogliazione che allude a una ricchezza - c’è un rifiuto degli aspetti sotto-culturali della fiction, un’apertura di credito alla vera narrazione.