LIVIO BERRUTI, La Stampa 11/7/2010, pagina 19, 11 luglio 2010
BERRUTI
Un bel libro di Alberto Bolaffi indaga e mette a fuoco i quattro punti che sono alla base degli exploit sportivi.
Primo punto, conta la qualità dei geni trasmessi da papà e mamma, perché tu possa correre veloce o in ogni caso essere un campione; secondo, il successo non ti appartiene ma dipende dall’ambiente nel quale sei allevato; terzo, ha un grosso peso la fortuna; quarto, è decisiva la tua volontà di scoprirti.
Evidentemente queste condizioni non si sono mai verificate tutte insieme, fino all’altro ieri, in un atleta bianco che si dedica allo sprint.
Mi ricordo che nel 1961 a Malmoe, in Svezia, disputai la miglior gara di 100 metri della mia carriera. Sotto una pioggia battente, con la pista che allora era in terra e non in materiale sintetico come oggi, quindi quel giorno molle e friabile, corsi in 10”4 lasciando a 10 metri di distanza un avversario molto forte. In condizioni ideali avrei potuto forse scendere sotto i 10”.
E fino ad allora nessuno c’era mai arrivato, qualunque fosse il colore della sua pelle. Nelle sfide con il tedesco Hary, il primo al mondo a scendere a 10” netti, feci uno a uno, un successo a testa. Insomma, ero anch’io lì sulla soglia...
Certamente fra gli atleti di colore gli incroci delle razze favoriscono il cocktail genetico di prima qualità.
E la muscolatura agile, sciolta, la facilità istintiva della corsa che deriva dalle fatiche e dalla vita più naturale dei loro avi è una carta in più che possono giocare.
Si dice poi che la razza nera abbia i muscoli più ricchi di fibre bianche, quelle adatte allo sprint. Sarà tutto vero, ma non andiamo a concludere che quella bianca sia una razza inferiore, pur relativamente parlando di quella che è la massima espressione sportiva dell’uomo, la corsa veloce.
Appena un francese alto quasi come Bolt e con la giusta volontà di scoprirsi si è dedicato a fondo ai 100 metri, il gap è stato colmato.