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 2010  luglio 11 Domenica calendario

JONATHAN COE

Euro-trash vuol dire euro-spazzatura: è così che gli inglesi doc chiamano noi europei del continente. Non c´entrano l´antipatia per l´euro e la nostalgia del British Empire. L´etichetta, applicata con una buona dose di umorismo, più che come insulto, riguarda in particolare quella ricca e felice colonia di italiani, di francesi, di altri continentali, che ha invaso i quartieri più chic di Londra, se ne è appropriata, e vi esibisce una moderna versione della dolce vita, a base di auto di lusso, abiti firmati, un evidente complesso di superiorità e un cattivo gusto che nemmeno i soldi riescono a mascherare. Potremmo replicare che loro, gli inglesi, hanno fatto lo stesso con il Chiantishire, un tempo bucolica area della Toscana, ora contea distaccata dell´Inghilterra. Ma a parte il fatto che gli inglesi nelle cascine del Chianti parlano a bassa voce e per lo più si astengono dai comportamenti kitsch, adesso sono seduto a un tavolino della piazza più euro-trash (Sloane Square) nel quartiere più euro-trash di Londra (Chelsea), con uno scrittore che detesta l´euro-spazzatura.
Eppure Jonathan Coe, autore di una decina di romanzi che messi insieme raccontano una storia a puntate della Gran Bretagna, dalla Thatcher a Blair (l´ultimo, I terribili segreti di Maxwell Sim, è uscito in questi giorni in Italia pubblicato da Feltrinelli; lui comincerà a presentarlo nel nostro paese il 13 luglio, alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi, e il 16 alla rassegna il "Libro Possibile" di Polignano a Mare, Bari), vive da un paio di decenni proprio qui, a Chelsea, a due passi dalla brasserie dove ci siamo dati appuntamento. E dove l´euro-spazzatura, senza offesa per nessuno, si respira effettivamente a pieni polmoni.
Come mai ha scelto di abitare in mezzo a questo effluvio? «Non certo perché mi piace Chelsea», risponde. «O meglio, non certo perché mi piace Chelsea com´è oggi. Una ventina d´anni fa, quando mi sono sposato, la famiglia di mia moglie aveva un appartamento in questa zona e ci siamo venuti a stare. Conoscevo e amavo la Chelsea della mia gioventù, ero consapevole di che cosa era stata ancora prima: il quartiere della Swinging London anni Sessanta, e poi dei punk, e anche quando mi ci sono trasferito io era ancora pieno di piccoli caffé, curiose botteghe, tipi strani, aveva insomma un suo fascino e una sua energia creativa, un´aria bohèmienne che apprezzavo. Adesso è un quartiere di banchieri francesi, di banchieri italiani, di banchieri russi, di banchieri svizzeri, insomma di banchieri approdati a Londra da tutta Europa, e non è che io, se dovessi scegliermi dei vicini di casa con cui andare a bere una birra al pub, sceglierei dei banchieri, europei o meno».
Anni fa, quando ci conoscemmo, ricordo che Coe mi sorprese perché, caso forse unico nell´entusiasmo collettivo per la Londra del blairismo, per la Cool Britannia, la Britannia fichissima e pure (un po´) di sinistra, lui dimostrava scarso entusiasmo per la capitale e confessava di non vedere l´ora di svignarsela. E ora? «Ora sto per compiere cinquant´anni, ma le mie figlie vanno ancora a scuola e penso che per loro sia tutto sommato un bene crescere in una grande città. Rimando la mia fuga da Londra a quando di anni ne avrò quasi sessanta, quando mi cercherò un posticino in campagna da qualche parte e a Londra ci verrò solo per visitare musei, andare a teatro o al cinema, passare pomeriggi in libreria o incontrare i vecchi amici». Cosa non lo convince di Londra? «Mica vorrei tornare indietro, al passato remoto di una città sussiegosa, ammuffita e old England. Apprezzo i benefici del multiculturalismo. Riconosco che culturalmente Londra offre più di quasi ogni altro luogo della terra. E, dopo tanti anni, ci sono affezionato, anche se sono nato e cresciuto a Birmingham. Non mi piace però che sia così costosa. Non mi vanno quelli che la esaltano perché vedono solo Chelsea e il centro, senza aver mai messo piede in certe zone di periferia dove si affettano i minorenni a coltellate. ancora, per certi versi, una città dickensiana, di ricchissimi e poverissimi: in assoluto, preferisco i posti dove sono quasi tutti né ricchi né poveri». E, potendo scegliere, in che parte di Londra vivrebbe? «Forse ad Hampstead, perché il suo parco non è un parco ma un vero, grande bosco, e perché il quartiere ha una certa aria intellettuale in cui mi riconosco. Però, da qualche tempo, mi sorprendo a passeggiare per Pall Mall, la grande strada dei club per gentiluomini, non perché pensi o desideri di esservi ammesso, ma perché conserva un po´ di storia, di autenticità, è sfuggita all´omologazione che clona strade tutte uguali, con le stesse catene di caffè, librerie, farmacie e supermercati, di modo che non puoi nemmeno distinguere dove sei».
Un´altra cosa che ai miei occhi distingueva Coe dall´omologazione culturale, ossia dal vizio che porta tutti a seguire le stesse mode, era la prudenza, per non dire scetticismo, con cui guardava Blair e il blairismo. «Sono sempre stato laburista e ho votato per Blair, fino alla guerra in Iraq, poi ho smesso. Perché le bugie da lui raccontate per portare il nostro Paese in guerra mi hanno fatto credere che fosse poco sincero anche su altre questioni». Per chi ha votato alle ultime elezioni? «Per i liberaldemocratici, un partito di centro diventato una specie di rifugio per molti laburisti delusi». E che impressione gli fa ritrovarsi ora a letto, per così dire, con i conservatori, nel governo di coalizione uscito dalle urne? «Una strana impressione, perché noi britannici, a differenza del resto d´Europa, siamo poco abituati alle coalizioni. Il premier conservatore, David Cameron, mi incuriosisce. Sembra più moderato, per non dire più di sinistra, di gran parte del suo partito. E in Nick Clegg, il leader lib-dem, ha trovato un sosia sotto ogni punto di vista. La verità è che il Regno Unito si trova in una fase di incertezza, rispetto agli anni della Thatcher e di Blair. Non sappiamo più bene chi siamo, né dove andiamo. Una condizione che può creare disagio ma che io trovo interessante, proprio perché induce a riflettere, a porsi domande, anziché fornire risposte preconfezionate».
L´incertezza del non sapere cosa ci aspetta è anche un elemento, se non l´elemento centrale, del suo ultimo romanzo: quanto c´è di Jonathan Coe in Maxwell Sim, il protagonista del libro? «Parecchio. Max ha la mia età, molti dei miei dubbi, alcune delle mie idiosincrasie. uno che scappa da Londra, accettando una stravagante proposta di lavoro che lo conduce in Scozia, perché non sa mai cosa scegliere, non vuole decidere, preferisce che sia qualcun altro e magari il destino a decidere per lui. Anch´io sono fatto così, e sarei potuto diventare uno come Max, se la scrittura non mi avesse fornito una direzione e un´identità».
Nelle prime pagine del romanzo c´è una bella metafora sulla somiglianza tra le persone e le automobili: «Ogni giorno corriamo di qua e di là, arriviamo quasi a toccarci ma in realtà c´è pochissimo contatto. Tutti quegli scontri mancati. Tutte quelle possibilità perse. inquietante, a pensarci bene. Forse è meglio non pensarci affatto». E nella seconda parte del libro il protagonista, in auto, si innamora poco per volta della voce femminile del suo navigatore satellitare. «L´idea mi è venuta durante un viaggio in Irlanda», osserva Coe. «La navigatrice stava dando istruzioni, mia moglie parlava e io la zittii perché non riuscivo a sentire. Lei mi rimproverò di dare la precedenza a una persona inesistente. Ma quante persone inesistenti possono avere un ruolo, un peso, nella nostra vita? Oggi la maggior parte dei rapporti avvengono filtrati da un mezzo tecnologico, abbiamo amici su Facebook che non incontreremo mai, scambiamo e-mail e messaggini invece di guardarci in faccia. Diamo talvolta perfino più valore al personaggio di un romanzo che a una persona vera. un bene, è un male? Non sono sicuro della risposta».
Nel suo libro c´è un´altra osservazione conclusa da un interrogativo: "A mano a mano che invecchi, alcune amicizie ti sembrano più ingiustificate. E un bel giorno di chiedi: a che servono?". Quanto è importante l´amicizia? «Molto importante. Però, alla soglia dei cinquant´anni, uno sente che il tempo a disposizione non è più infinito, non si può più sprecare, e comincia a diventare più selettivo, anche nelle amicizie. I miei romanzi in fondo sono la storia di un gruppo di amici, dalla adolescenza alla gioventù, dall´età adulta alla maturità: se in questa fase del viaggio uno riesce a conservare un po´ di amici veri, con cui si fanno ancora cose insieme, con cui si condividono idee e passioni, è fortunato». Gli domando se, fra i suoi amici, ci sono gli scrittori inglesi considerati, insieme a lui, tra i migliori della sua generazione: Nick Hornby, Ian McEwan, Martin Amis. «Conosco Nick, ma non ci vediamo spesso, Ian lo incontro a eventi e festival letterari, Martin l´ho intravisto qualche volta». Potreste essere, insisto, i quattro moschettieri della nuova narrativa britannica, solo che bisognerebbe stabilire chi è chi: e in particolare chi è D´Artagnan. Jonathan scoppia a ridere. « un gioco a cui non posso partecipare, perché, per quanto possa sembrare strano, non ho mai letto I tre moschettieri. Ho visto una o due versioni cinematografiche, tanto tempo fa, da ragazzo. E so benissimo che è un gran libro. Ma non l´ho letto. una lacuna che prima o poi dovrò colmare». Mi riprometto di regalarglielo, la prossima volta che ci incontreremo. Nella piazza più euro-trash di Londra, o da qualche altra parte.