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 2010  luglio 11 Domenica calendario

I MARITI TEDESCHI IN FUGA VERSO LA BABILONIA CECA

A Ratisbona l’estate sembra non assestarsi mai: pioggerelline uggiose, orli di nebbia improvvisamente bucati da qualche robusto e impetuoso raggio di sole subito risucchiato nella fuliggine di un cielo sempre basso. Quasi che la tempesta abbattutasi sul coro dei ragazzi del Duomo faccia parte di quella ragnatela di isobare che impazziscono sulla Baviera orientale al confine con la Boemia Ceca passando da un eccesso all’altro. Non può certo dirsi una città sonnacchiosa, Ratisbona: da millenni la sua storia è segnata da piccoli grandi avvenimenti, riflesso del carattere indocile di una gente fin troppo creativa, nel bene e nel male. Un esempio per tutti: nel XVI secolo, durante una lunga carestia, i suoi abitanti cacciarono gli ebrei e diedero alle fiamme il loro quartiere, ripetendosi durante il nazismo con la creazione (poco distante) del campo di Flossenbürg. Ma è anche vero che qui operò a lungo l’Oskar Schindler protagonista del film di Spielberg. E Keplero. E quel Franz von Taxis che a fine ”500 inventò il sistema postale europeo. Il vecchio centro, appollaiato sul Danubio, è un gioiello di Medioevo perfettamente conservato (e restaurato) nonostante i fitti bombardamenti che miravano alle fabbriche Messerschmitt e le catene di montaggio dei caccia Me 109: oltre 1500 «luoghi d’interesse», testimonianze di tutte le ere, patrimonio dell’Unesco. Un dedalo di vicoli, viuzze, piazzette, torri, guglie, archi, linde facciate di aristocratici palazzotti, improvvisi mercatini, déhors sempre pieni, botteghe, chiese, chiostri, in un’alchimia di sacro e profano che noi conosciamo così bene.
Rintanati tra i velluti, i mogani, le rastrelliere dei quotidiani e gli infiniti specchi del Café Orphée si ascoltano pettegolezzi, gli occhi a sbirciare i piccoli appunti disegnati sulle tovagliette di carta sotto la tazza. «Il nostro primo insediamento risale all’età della pietra. Il nome deriva dal celtico Radasbona. Poi venne Marc’Aurelio e la trasformò in Castra Regina, germanizzato nell’attuale Regensburg. Nel 1245 Federico II la nominò libera città imperiale e la sua magnificenza durò nei secoli, fino al 1803, quando Napoleone sciolse l’impero». Al tavolo accanto due anziane signore, di fronte a una cioccolata calda grondante panna, ridacchiano: «Adesso dobbiamo aggiornare il detto: se non si è attraversato il Ponte di Pietra, non si è incontrato un ebreo e non si sono sentite suonare le campane, non si è di Regensburg». Basta aggiungerci: «Se non hai fatto anche un giro con le puttane e le fiches di Babylon!».
La frase è oscura ma il giornale lì accanto spiega l’arcano. Una certa Lega delle donne sta denunciando da mesi «lo scandalo di mariti e figli che dilapidano il patrimonio familiare in casinò ed entraineuses d’oltre confine. Bisogna finirla con questa permissività ceca. E impedire ai frontalieri boemi di venire a lavorare da noi con le tasche piene di ticket gratuiti per ristoranti e alberghi in cambio di qualche puntata».
La storia riaffiora ovunque. Ha un appeal chiacchiericcio ben più popolare di tutte quelle cupe vicende di Duomo che, tra parentesi, davvero cupo è. Nonostante le meravigliose vetrate policrome e il rispetto totale per le «giuste misure» che ne fanno una della fabbriche gotiche più spettacolari di Germania. Ma anche il Walhalla è scenografico in misura quasi assurda: un gelido Partenone di marmi neoclassici, voluto da re Ludwig per risvegliare l’idea nazionale e che oggi ospita 128 busti dei Grandi Tedeschi, da Kant a Lutero, da Bach a Einstein.
E allora, in strada per Babylon: già il nome è piuttosto evocativo. Campagne addormentate, boschi, cave, camion, traffico lento lungo una statale stretta e aggrovigliata. Un’ora e quasi non t’accorgi di passare di là: nessuna guardia di frontiera, nessuna sbarra, nessun avviso evidente. Probabilmente esiste, ma è nascosto nella grafia di una lingua ostica. Poi, tutto a un tratto, il paesaggio muta, gli occhi invasi da richiami assillanti e (questi, sì) chiarissimi. Ovunque ricami di luci a forma di donnina discinta, immensi cartelloni celebranti mille casinò e sale da gioco, offerte speciali e promesse allettanti di soldi ed erotismo a farti da ala per chilometri. E, laggiù in fondo, Babylon. E’ un po’ come quando si abbandonano i deserti californiani per approdare nel Nevada delle slot machines, piazzate persino nell’atri delle cappelle da nozze istantanee. O come quando, un tempo, entravi nell’Arizona dei bar, abbandonando lo Utah proibizionista che tutto vietava.
Lungo i lievi mammelloni su cui scivola pigra la «26», la Repubblica Ceca si offre subito come il Paese del ben godi. E osservando la quantità di targhe con la R di Ratisbona capisci le ragioni di quella femminea Lega. Pochi sono infatti i boemi. Gente tanto gentile quanto intimamente rapace. Pronta a sfruttare quel vecchio Ovest che l’ideologia antica descriveva come ingenuo e decadente. E che abbocca di continuo alle lusinghe. Tanto disattenta da non vedere più i richiami veri. Quelli, per esempio, che intimano di pagare la «vignetta» necessaria (come in Svizzera) per entrare in autostrada. Alla prima piazzola è immancabile il blocco in cui si ammonticchiano i non cechi: «Guardi, per questa volta le faccio lo sconto: poco più di 20 euro, vada a mettersi in regola».
Il sorriso del poliziotto è divertito ma amichevole. Come quello dell’addetto che, dopo aver incassato, sussurra con fare misterioso: «Vuoi del caviale russo?» E tira fuori un barattolino di vetro con su scritto «Pravy Kaviar», il resto è cirillico. «Venti euro». Peccato scoprire dopo che sono banali uova di salmone. Poi ti saluta con un consiglio d’amico: «Se vai a Praga, non dimenticarti del museo del sesso: è proprio davanti alla Torre dell’Orologio». Come fanno i maschi di Ratisbona a resistere a tutto ciò?