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 2010  luglio 11 Domenica calendario

ADDIO ALL’ULTIMA LITTLE ITALY

Qui di italiano ci sono rimasti solo un po’ di ristoranti». Cecilia, 87 anni e borsa della spesa in mano, scuote la testa mentre attraversa Hughes Avenue per andare dal mercato a casa. In mezzo alla strada vi sono bambini messicani a giocare a pallone, il ristorante «La Casita Poblana» è pieno di avventori e dal «Cuba Cigar» esce una nuvola di fumo. «Guardatevi attorno, di italiani non ce ne sono quasi più» dice a malincuore Cecilia, arrivata giovanissima da Torretta «vicino a Palermo» e cresciuta ad Arthur Avenue, dove sono nati i suoi figli e nipoti.
Siamo nell’ultima Little Italy di New York, incastonata nel Bronx fra lo Zoo, l’Università di Fordham e i giardini botanici. un’area nota come Belmont che ruota attorno al tratto di Arthur Avenue fra la East 187ª Street e Columbus Plaza. Gli immigrati italiani ci arrivarono all’inizio del Novecento come nel Lower East Side, ma la differenza è che qui erano sempre riusciti a difendere la roccaforte etnica sul territorio. Se la Little Italy di Manhattan si è svuotata a favore di Brooklyn a partire dagli Anni Cinquanta per la fuga verso i sobborghi - e una generazione dopo lo stesso spostamento in cerca di quartieri migliori ha portato gli immigrati di seconda e terza generazione a Staten Island e nel New Jersey - Arthur Avenue aveva resistito attorno al «Retail Market», il mercato coperto voluto dal sindaco Fiorello LaGuardia nel 1940 per creare un punto collettivo di vendita di alimentari come c’è nella piazza di qualsiasi paese italiano. Ma ora l’italianità di Arthur Avenue barcolla. E’ sufficiente passeggiare attorno al doppio portone d’entrata del mercato per accorgersi che gli italiani sono sotto assedio a causa della crescita esponenziale di due gruppi che non potrebbero essere più diversi: gli albanesi e i messicani.
Caratteri albanesi ornano il murale con la gigantografia di Gesù che campeggia all’entrata dell’unico parcheggio della zona - il cui valore specifico è molto alto perché qui la metropolitana non arriva - e sullo stesso marciapiede c’è il Gurra Caffè, un ristorante dai prezzi non accessibili a tutti che serve specialità schipetare alla stessa clientela che poi a casa guarda «Alb tv», l’emittente albanese il cui nome campeggia sul palazzo a due piani al 2220 di Arthur Avenue. Il merito è di un trentenne albanese-americano, Leonel Dreshaj, che ha creato la società «Fta Market» che vende quello che definisce un «decoder etnico» con il quale «la gente di qui può vedere le stazioni nella lingua madre». Sono 23 i canali albanesi disponibili. La madre, Nusha, è una ex profuga kosovara che di tv non sa molto ma offre a chiunque entra da bere «perché noi europei siamo molto ospitali». Il negozio accanto è gestito da altre due albanesi, una di Tirana e l’altra di Pristina, ed è un «Deli» che vende di tutto: giornali in lingua originale, cd di cantanti come Gazi, Leke e Dava, costumi schipetari, bandiere con l’Aquila e manuali di combattimento per i «guerrieri dervisci» in lotta contro i serbi.
Drina, quella di Tirana, parla degli italiani del quartiere come di «estranei, perfetti sconosciuti» perché «qui dentro non entrano mai» e «per strada quasi sempre neanche salutano». Mentre gli albanesi invece fanno la fila alla «Madonia Brothers Bakery» che vende pane fresco e cantucci dal 1918. Se albanesi e kosovari sono un gruppo minoritario ma molto aggressivo, determinato a farsi spazio senza troppi complimenti, i messicani invece dilagano. E sorridono, senza curarsi troppo delle tensioni con i non ispanici. «Gli italiani chi?» chiede con un ghigno Gregorio Castro, 45 anni, titolare del negozio di abbigliamento sportivo «Mexico Sport Center» che da sette anni è anche la sua casa. «Vendo magliette nere e verdi della nazionale del mio Paese, qui vengono solo messicani e in questo quartiere sono davvero tanti... Gli italiani? Non si fanno vedere molto, qui ognuno sta a casa sua», racconta passeggiando nel giardino davanti al suo negozio dove sorge un busto marmoreo di Cristoforo Colombo, simbolo dell’insediamento italiano in America. Ma la Storia passata interessa poco ai messicani, che in gran parte sono giovani e intenzionati a «lavorare sodo e guadagnare molto» come riassume Ramiro, 37 anni, di Puebla, titolare della tavola calda «El Sureno» dove i prezzi sono bassi e «il cibo talmente piccante che gli italiani neanche si avvicinano». Se nel 1980 solo 35 abitanti di Arthur Avenue erano messicani - pari allo 0,2 per cento della popolazione - ora sono ben 3200 - il 14 per cento del totale - con un aumento in sintonia con quanto sta avvenendo nel resto della città.
Le conseguenze si vedono da quanto avviene nei luoghi di culto di quartiere. La cattolica «Church of Our Savior» ha ormai l’80 per cento dei fedeli di origine ispanica, mentre alla «Our Lady of Mount Carmel Church», perennemente ornata con festoni tricolori, l’arcidiocesi a New York ha imposto di celebrare almeno due messe in spagnolo ogni settimana, designando alcune suore ispaniche per curare i rapporti con i fedeli madrelingua spagnoli. «Non c’è molto da sorprendersi di questi cambiamenti», taglia corto il negoziante napoletano Salvatore De Cicco che su Arthur Avenue vende targhe personalizzate, «perché albanesi e messicani continuano ad arrivare, moltiplicandosi, mentre gli italiani non vengono più a New York, se ne stanno a casa loro». Maurizio, da 14 anni capo cameriere nel ristorante salernitano «Zero Otto Nove» arredato alle pareti con i manifesti dell’ultima campagna elettorale in Campania, aggiunge: «Tutto vero, ma conta poco, qui in America l’unica maniera per andare avanti è lavorare sodo ed è una regola che vale per tutti, italiani, messicani o albanesi».
Alessandro Fava, ventenne newyorchese-palermitano, ammette che «qui un po’ tutto ormai è cambiato» e l’unica costante con i racconti dei genitori è il boom di vendite di prodotti alimentari italiani, simili a quelli che lui vende nella «Casa della Mozzarella» di Orazio Carciotto, dove chiunque entra può vedere con i propri occhi come viene lavorato il più popolare dei formaggi nostrani. Se gli italiani sembrano rassegnati al destino di perdere il controllo della Little Italy del Bronx, a gioire senza esitazioni di quanto sta avvenendo sono gli inservienti messicani delle pescherie Cosenza’s e Randazzo’s che, fra polpi vivi e ippoglossi freschi, vedono un futuro roseo: «La gente che parla la nostra lingua qui sta aumentando».