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 2010  luglio 11 Domenica calendario

MENO CAMPI, PI FORESTE COS CAMBIA IL NOSTRO PAESAGGIO - GRAVAGNA SAN ROCCO

(Massa Carrara) - Guarda il bosco, che comincia subito dopo il prato che sta falciando. «A volte non riesco a credere ai miei occhi. Nel 1970, quando avevo 14 anni, il bosco cominciava là in alto. Ci mettevo un´ora per arrivarci con l´asino a fare legna. Prima c´erano il grano, poi i prati e le terrazze con le patate, l´orzo, la segale, qualche vite. Ora il bosco ci entra in casa. Noi l´abbiamo abbandonato e lui si vendica. Era la nostra ricchezza e l´abbiamo buttata via». Gianmarco Corchia, ragioniere, racconta che non nell´800 ma 40 anni fa («Ho iniziato le elementari nel 1962») i bambini andavano a scuola portando un pezzo di legna per la stufa che scaldava la classe. «E i miei genitori, andando a messa, portavano la legna per il prete. Era un regalo prezioso, allora, la legna del bosco».
L´alta Lunigiana è il posto giusto per capire come stia cambiando la foresta italiana. Qui almeno l´80 per cento dei boschi sono abbandonati e in quarant´anni hanno invaso quasi tutta la valle. Sono diventati quasi inaccessibili, infestati da cespugli, rovi ed edere. Si sono ammalati, perché senza la cura dell´uomo il "cancro dei castagni" ha infettato il 50% di queste piante. Purtroppo, la Lunigiana non è un caso isolato: in Italia ci sono almeno 1,5 milioni di ettari di bosco (su 10.673.589 ettari di superficie forestale) rimasti senza padrone e senza cura. «Secondo la mia stima - dice Valerio Poi, presidente della Coop agricola Alto Appennino, che ha la sede a Gravagna - i boschi perduti sono molto più numerosi. Una foresta dove entrano ormai solo i cercatori di funghi e nessun contadino non è forse abbandonata?». In vent´anni la superficie forestale italiana è aumentata del 20% (ora copre il 35% del territorio nazionale) e questa potrebbe essere una buona notizia. «Ma il bosco - dice un anziano all´ombra della chiesa - è come un cane. Fedele e generoso se lo tratti bene: ma se lo abbandoni diventa selvatico, si mette in branco, diventa aggressivo».
Non c´è nemmeno un bar, a Gravagna. «Eravamo in duecento - dice Gianmarco Corchia - quando io andavo alle elementari. Ora siamo meno di quaranta e facciamo altri mestieri. La mia generazione ha capito che con la farina di castagne e un po´ di patate non potevamo avere un futuro». Antonio Lisoni, 44 anni, agronomo e vicepresidente della Coop agricola, è uno dei pochi tornati in valle dopo anni di lavoro a Milano. «Come cooperativa, gestiamo anche un´azienda faunistica venatoria, la Groppo del vescovo. Abbiamo in gestione 1.700 ettari, per la caccia stanziale e quella di selezione al capriolo. Per conoscere il passato recente di queste valli, basta guardare le mappe catastali: in val Gravagna e val Dantena c´erano più di 700 proprietari. Settecento famiglie, quasi tutte numerose, che qui riuscivano a vivere. Io li ricordo, i boschi di mio nonno. Erano giardini».
I gradili per l´essicazione delle castagne sono ormai sommersi da arbusti e rovi. «Ci volevano venti giorni, per seccare le castagne senza bruciarle. Poi si portavano ai mulini per ridurle in farina. Ma nel castagneto si lavorava tutto l´anno. Le piante venivano potate e liberate dai rami secchi. Con il rastrello si raccoglievano le foglie per la lettiera delle vacche. La farina di castagne per noi è stata importante come quella di mais per i contadini di pianura. Una vita dura, dove lavoravi da mattina a sera». Una vita dalla quale tanti sono fuggiti. « Mio nonno e quelli della sua generazione sono stati gli ultimi a credere che si potesse vivere in queste valli. Noi, i loro figli e nipoti, siamo andati via, perché un mese di stipendio a Milano o a Pontremoli rendeva più di un anno di lavoro nei boschi e nei campi».
Non si riesce nemmeno a entrare, nei castagneti. I rovi tagliano le gambe. «Il cancro c´è perché, se un tempo i contadini potavano il ramo colpito, ora i castagni malati crescono, si intrecciano con i castagni sani e li contagiano. Le foglie cadute, non più raccolte, marciscono e rovinano il terreno. Questo strano bosco diventa aggressivo: sono spariti l´80% dei prati e i meli e i peri sono stati soffocati dalle piante più alte. Delle terrazze coltivate è rimasta qualche vecchia fotografia».
Adesso che tutto è più difficile si cerca di reagire. «In montagna c´è un tentativo di rinascita - dice Stefano Masini, responsabile economia e ambiente della Coldiretti - ma è necessario prima di tutto un nuovo welfare. Certi prodotti di nicchia hanno trovato un mercato. Ma non riporti i giovani sui monti se non c´è la scuola per i loro figli e se devi fare venti chilometri per trovare un negozio. Il bosco può tornare ad essere produttivo se ci sono sentieri e strade, se il lavoro trova un giusto compenso». Molti i progetti, anche qui in Lunigiana. «Con le biomasse - dice il presidente Valerio Poi - si può produrre energia elettrica. Con un´azienda di 1.000 ettari, con turnazione ventennale, si possono tagliare 50 ettari all´anno. Per ogni ettaro si ricavano 1.000 quintali di prodotto (800 di legno, 200 di ramaglie). Con 50 ettari si tagliano 50.000 quintali all´anno, che producono 600 Kw ora. Moltiplicando per le 8.000 ore annue e per un prezzo di 0,28 euro per Kw ora prodotto, si ottiene una cifra pari a 1.344.000 euro. Con un fatturato così, si creano posti di lavoro. Ma mancano gli investimenti: la Pac, politica agricola comunitaria, continua a finanziare solo i contadini di pianura». Franco Seratti Pianieri di Vresola, 28 anni, è l´ultimo pastore rimasto nella valle. «Qui c´erano 40 famiglie e 40 aziende agricole. Sono rimasto io con le mie 140 pecore e le porto a pascolare girando fra campi invasi dal bosco. Forse avevano ragione i miei compagni delle elementari: sono andati via tutti».