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 2010  luglio 10 Sabato calendario

INTERVISTA A VALERIO CASTRONOVO

Se si volta indietro, Valerio Castronovo può guardare con soddisfazione, e non senza orgoglio, cinquant’anni di ricerche storiografiche, come un alpinista che all’uscita da una parete Nord si giri a rimirare lo scivolo di ghiaccio e neve che ha appena percorso. Docente alla Statale di Milano e all’Università di Torino, quasi sicuramente è il più prolifico storico italiano, in una posizione di avanguardia, perché attirato da nuovi argomenti di studio come la finanza o la stampa, un tempo snobbati dai suoi colleghi, e incline a uno stile narrativo sul modello degli storici inglesi. A 75 anni, pubblica ora Le ombre lunghe del ”900 (Mondadori). E’ l’occasione per un bilancio.
Quali sono, professore, queste ombre che si allungano sul nuovo secolo?
«Si tratta di eventi e fenomeni che hanno le loro radici nel secolo scorso e che si sono poi manifestati nel primo decennio del nuovo secolo: il nazionalismo etnico, fonte di guerre intestine dall’ex Jugoslavia all’Est europeo, al continente africano e a parte di quello asiatico; il fondamentalismo estremista islamico tradottosi, per mano di Al Qaeda, in una catena inarrestabile di atti terroristici; la proliferazione delle armi nucleari e di altri mezzi di distruzione di massa; il sopravvento di un turbocapitalismo finanziario senza regole; il degrado ambientale; l’immigrazione crescente dal Sud al Nord del mondo».
Il sottotitolo dice «Perché la storia non è finita», alludendo, per smentirla, alla famosa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia. In che senso, professore, la storia continua?
«Dopo il crollo dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est e dell’Unione Sovietica, s’era diffusa la convinzione che la democrazia avrebbe avuto la meglio un po’ dovunque e che gli Stati Uniti, quale unica superpotenza, avrebbero contrassegnato una volta per tutte l’assetto e la rotta di un sistema internazionale tendenzialmente pacificato. Invece, è tuttora prevalente l’arcipelago dei regimi dispotici e autoritari. Quanto allo scenario mondiale, è divenuto multipolare, popolato di nuovi attori (con in testa Cina, India e Brasile) senza che ciò abbia significato migliori condizioni di convivenza e sicurezza».
Questo libro esce quasi cinquant’anni dopo la sua prima ricerca, che era dedicata alla stampa fra l’Unità e Giolitti. Mezzo secolo di lavori storiografici: lei ha tenuto il conto di quanti titoli ha pubblicato?
«Non ho mai tenuto il conto dei saggi che ho pubblicato. Tuttavia, ritengo, lasciando da parte i miei scritti in opere collettanee, che siano una ventina i libri che ho firmato sulla base di ricerche di prima mano condotte in archivi pubblici e privati e con la ricognizione di varie fonti bibliografiche».
Lei emerge fin dagli inizi come storico dell’economia. Fra l’altro ha curato negli Anni Settanta l’edizione italiana della «Cambridge Economic History» (per Einaudi). Ha raccontato Giovanni Agnelli, la Fiat, la Confindustria e l’industria tessile. Come maturò questa scelta?
«Oltre che di economia, mi sono occupato del ”quarto potere”, di giornali e informazione, in quanto espressione di un sistema liberale e di una società pluralistica. L’interesse per l’economia è nato dall’aspirazione, condivisa con studiosi della mia generazione, a colmare certe vistose lacune nella letteratura storiografica, su genesi e dinamiche del capitalismo italiano. Quale consulente, ho poi trovato alla Einaudi un ambiente denso di idee e di stimoli per coniugare in una visione d’insieme la storia economica con quella politica e sociale».
Com’era il suo rapporto con Giulio Einaudi? La metteva fra i brillanti o fra i noiosi?
«Tutto sommato, io ebbi ottimi rapporti con Giulio Einaudi, perché capii quasi subito che non dovevi metterti tanto in mostra. Non dovevi fare la primadonna, perché la primadonna era lui. Mi furono molto d’aiuto, per adeguarmi alla filosofia einaudiana, sia Davico Bonino, con la sua ironia, sia Giulio Bollati, che mi diede molti consigli pratici su come comportarmi. Aggiungiamo che, contrariamente alle previsioni, l’edizione italiana della Storia economica di Cambridge, da me curata, andò molto bene, come ancora oggi mi dicono i diritti, e questo mi giovò non poco».
Quando invece scrisse per Utet la biografia di Giovanni Agnelli, ebbe rapporti con l’Avvocato? Che cosa le diceva?
«Ricevetti la proposta dalla Utet dopo che avevano rinunciato sia Paolo Spriano, storico del Pci, sia Giovanni Spadolini, storico liberale. Non se l’erano sentita. Io avevo 34 anni, era un passo importante. Devo dichiarare che da corso Marconi non mi venne nessuna pressione. Vidi l’Avvocato, con il figlio Edoardo e la sorella Susanna, quando la biografia venne presentata al Circolo della Stampa. Lo rividi quando nel 1977 il libro uscì da Einaudi. Alla presentazione dovevano partecipare sia l’Avvocato sia Einaudi, ma quest’ultimo s’impuntò: o me o lui. E all’ultimo non venne. L’Avvocato fu molto cordiale. Contro la mia tesi sostenne che suo nonno, al tempo dell’occupazione delle fabbriche, voleva veramente la cooperativa e la cogestione. Forse perché nel ”77 lui lancia il patto dei produttori e quindi gli piaceva che nella storia dell’azienda ci fosse questo precedente: un preludio».
Quali sono gli autori e i libri che più hanno inciso nella sua formazione di studioso?
«Devo premettere che è stato Alessandro Galante Garrone, con un brillante corso sulla Rivoluzione francese da lui tenuto nel 1956-57 a convertirmi agli studi storici. Altri maestri come Guido Quazza, Franco Venturi e Norberto Bobbio mi hanno insegnato che l’analisi storica è soprattutto educazione all’esercizio critico, per cui occorre valutare i retaggi di una determinata epoca nella loro effettiva concretezza e complessità, senza codici ideologici precostituiti. All’atto pratico, hanno fatto scuola per me un’opera di Fernand Braudel come Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II e quella di Paul Hazard La crisi della coscienza europea. Successivamente, sono stati preziosi i saggi di Marc Bloch sul Mestiere dello storico, di Max Weber sul Lavoro intellettuale come professione, di Federico Chabod sulla Storia dell’idea d’Europa, di Rosario Romeo su Risorgimento e capitalismo. Inoltre ricordo Barrington Moore (Origini della dittatura e della democrazia), George Mosse (L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste) e Ralf Dahrendorf su liberalismo e totalitarismo».
C’è nel suo lavoro un libro che avrebbe assolutamente voluto scrivere e che invece non ha scritto?
«Per tanto tempo ho continuato a pensare che avrei dovuto occuparmi di politica internazionale. Oggi infine non ho più rimpianti avendo scritto ultimamente sulle vicende della Comunità europea, sul ritorno in auge di Cina e India, e sui dilemmi dell’America latina».
Nelle sue letture c’è stato e c’è spazio anche per la letteratura e la narrativa?
«Alla letteratura ho dedicato molta attenzione in passato, più di adesso».
Ricorda quali erano le sue preferenze da ragazzo? Ricorda i narratori che allora la appassionavano?
«Da ragazzo, nel dopoguerra, ho letto d’un fiato i libri di Hemingway, Fitzgerald, Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, Caldwell; insomma, gli scrittori di quell’America del New Deal, democratica e progressista, che è poi rimasta per me un emblema ideale».
Se dal naufragio delle biblioteche potesse salvare tre titoli, quali sarebbero?
«Limitandomi a quelli italiani, la Divina Commedia di Dante, il Principe di Machiavelli, e la Storia d’Europa nel secolo XIX, di Benedetto Croce».
Ci sono testi di letteratura, di poesia, o romanzi e racconti che le sono serviti anche a capire meglio la storia e l’economia?
«Quelli soprattutto di Carlyle e Dickens, di Stendhal e di Victor Hugo, e naturalmente di Tolstoj».