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 2010  luglio 12 Lunedì calendario

GLI ERRORI DI IERI E I RISCHI DI OGGI

Ha fatto scalpore il fatto che il rettore dell’Università ”La Sapienza” Luigi Frati abbia denunciato la presenza di una percentuale consistente di ricercatori la cui produzione scientifica è inesistente da molti anni. Tuttavia questa denuncia non deve essere l’occasione per aggiungere un’altra pietra alla massa di accuse che da qualche tempo grava sull’università, quasi che essa sia la sentina di tutti i mali del Paese. I mali dell’università clientelismo, nepotismo, nullafacenza, caduta di livello sono gli stessi che si presentano in qualsiasi altro contesto, casomai in misura minore perché, per molti versi, l’università esprime ancora livelli culturali di prim’ordine. La denuncia del rettore Frati deve suscitare altre riflessioni. La prima è che si sta manifestando una reazione vitale dell’istituzione che esprime la volontà di reagire al degrado e di riqualificarsi. Un’altra riflessione è che, in un sistema di istruzione di massa, non è necessario che tutti producano scientificamente, imbrattando carta a tutti i costi: dovrebbe essere possibile non soltanto espellere i fannulloni e commisurare le progressioni di carriera e di stipendio al merito, ma prevedere passerelle verso settori del sistema pur dignitosi ma in cui non si richiede di produrre scientificamente in modo originale ma di prestare una buona attività didattica.
Il mondo universitario ha molte colpe, di cui diremo dopo, ma l’istituzione è stata massacrata da una serie di interventi irresponsabili che si sono succeduti da quarant’anni a questa parte. Un rapido memento.
L’università non poteva restare nelle dimensioni elitarie di altri tempi, ma l’apertura indiscriminata degli accessi è stato un atto di irresponsabile demagogia. Se così non fosse stato perché mai da tempo si moltiplicano le iniziative volte a introdurre numeri chiusi, numeri programmati, prove d’ingresso? Un Paese avanzato non esiste senza istituzioni di alta formazione e l’università, soprattutto a fronte di una crisi crescente della scuola, non può ridursi a liceo integrativo delle drammatiche carenze dei nuovi iscritti.
L’università è stata devastata, dagli anni settanta in poi, da una serie interminabile di ope legis secondo la visione del sistema dell’istruzione come di un enorme ammortizzatore sociale: immissione senza concorsi di borsisti e assegnisti nel ruolo di ricercatore, ”stabilizzazione” dei professori incaricati. Da quarant’anni si verificano soltanto sporadiche e massicce ondate di concorsi, di fatto altri ope legis. Si parla di gerontocrazia, e l’aspetto più comico è che siano professori in tarda età a denunciarla, ricordando lo stile della rivoluzione culturale del vecchio Mao-Tse-Dong. Ma l’università italiana non aveva tradizioni gerontocratiche. Malgrado i disastri prodotti dal fascismo e dalle leggi razziali, il sistema aveva mantenuto la sana tradizione di compiere precocemente i reclutamenti in ruolo, persino di nominare come professori ordinari dei ventenni, e di richiamare ”cervelli” dall’estero a ricoprire cattedre. superfluo dire che il sistema è diventato gerontocratico a causa degli ope legis e di una falsa autonomia che l’ha totalmente ingessato, ed ora pagherà il prezzo opposto, con il pensionamento improvviso di circa la metà del corpo docente che produrrà un gap generazionale dagli effetti culturali disastrosi.
Abbiamo avuto l’introduzione della laurea 3+2, laurea triennale seguita da laurea specialistica, propugnata in nome della falsa parola d’ordine ”l’Europa lo vuole”: gran parte dell’Europa non l’ha voluta ed ha fatto bene. Per anni il mondo universitario è stato distratto dal suo mestiere per fabbricare un delirante sistema di crediti, un’attività che ha promosso l’avanzata dei docenti peggiori, quelli cui piace la gestione più della didattica e della ricerca. Ora si fa a gara a denunciare gli effetti catastrofici di quella scelta: abbassamento del livello culturale, moltiplicazione esponenziale dei corsi di laurea e di corsi spesso frammentati a livelli ridicoli. Sono esiti in cui il mondo universitario ha avuto colpe gravi ma non va dimenticato il vecchio dilemma: è più colpevole il peccatore o chi induce in tentazione?
La colpa più grave del mondo universitario è stata quella di aver accettato in modo acquiescente, o al più brontolando nei corridoi, le devastazioni di cui sopra. Lo ha fatto forse sperando di conquistarsi la benevolenza del mondo politico e sindacale, oppure per la contiguità politica e ideologica delle sue correnti più influenti con i governi ”amici”, tacendo quando errori o tagli venivano da questi e levando alti lai quando venivano invece dalla parte ”nemica”.
Sei anni fa Claudio Magris descrisse in un memorabile articolo (Corriere della Sera, 16 marzo 2004) lo sfacelo dell’università denunciando la mercificazione introdotta dal sistema dei crediti. Menzionava il caso di uno studente che aveva posto come condizione per frequentare un seminario l’ottenimento di crediti: «gli ho chiesto se aveva mai baciato gratis una ragazza», osservava Magris. Anche a me è successo che uno studente abbia chiesto ”un” credito di cui aveva bisogno in cambio di una conversazione di un’ora... Ebbene, Magris fu aspramente rimbrottato dai vertici di allora della Conferenza dei Rettori, invece di ricevere lodi per la sua difesa dell’istituzione.
Negli anni settanta, fu lanciato un appello dal titolo «Vogliamo un’università di massa e qualificata» con molte firme illustri. L’università fu di massa, non c’è dubbio, ma della qualità non si curò nessuno. La voce dei firmatari però non si sentì più. Né si ricordano veementi appelli contro gli ope legis. Si è già detto dell’acquiescenza con cui fu implementato il sistema del 3+2: certo, la legge è legge e va applicata, ma quantomeno si può sempre protestare e, in certi casi, si può anche trovare il modo di implementarla nel modo meno devastante possibile.
Di tali errori vediamo alcuni segnali nelle proteste in corso, le quali prendono direzioni sbagliate. Sarebbe il caso di non indulgere più a richieste di stabilizzazioni o addirittura di creazione di un terzo ruolo di docenza entro cui si produrrebbe l’ennesimo ope legis, e di non opporsi più all’introduzione di regole meritocratiche. Bisognerebbe, al contrario parlare del modo in cui tali regole vanno introdotte. Non si insiste sul fatto che l’introduzione di sistemi di valutazione deve basarsi su criteri rigorosamente qualitativi e di merito e tener conto della crescente consapevolezza, espressa da autorevoli istituzioni internazionali, dei guasti prodotti da metodi di valutazione meramente quantitativi e basati su discutibilissime procedure bibliometriche. sorprendente che l’attenzione non si appunti, o si appunti marginalmente, su alcuni aspetti critici del disegno di legge in esame, che pure sono stati già emendati nella discussione parlamentare. Si tratta di uno schema di ”governance” che prevede una forte presenza di ”manager” sottratti a verifica, come se essere ”manager” per ”chiara fama” sia di per sé una garanzia di capacità di gestione di un’istituzione culturale, scientifica e di istruzione avanzata. Ma di questo rischio connesso a quello che si affermi un’idea strumentale della ”ricerca” disattenta al ruolo cruciale della ricerca di base si parla poco.
 bene quindi guardare ai veri problemi anziché ripetere errori indotti da vecchi tic corporativi e assistenziali. Ma una cosa va detta: il mondo universitario sta offrendo e la denuncia del rettore Frati va in tal senso un modello virtuoso di comportamento, quando richiede il mantenimento della progressione stipendiale ancorandola alla verifica del merito, a differenza dei settori che rivendicano la vecchia logica automatica. Il che conferma che, malgrado tutto, l’università è un’istituzione più sana di quanto si pensi.