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 2010  luglio 11 Domenica calendario

ORA LO AMMETTO: ERO IO IL MIGLIORE

Tira su la manica sinistra. Cicatrice al braccio. «La vede? Il match contro Adigue». Poi si tocca le sopracciglia. Arricciate. «Si spaccavano sempre. Mi sono anche operato ma loro niente: fragili come uova». Anche la spalla destra non se la passa bene: «Marzo 1971, mondiale contro Henrique, una battaglia». Il corpo come il calcio di un fucile: tante tacche quante sono le battaglie sostenute. E il sorriso furbo di sempre: «Non mi sono mai sentito Batman, ma solo un bravo pugile». Un po’ più bravo degli altri? «Non spetta a me dirlo, ma penso di sì. Risultati alla mano, credo proprio di sì». Bruno Arcari - come dice il titolo di un libro che racconta la sua vita - è l’ «ultimo guerriero» della boxe italiana. Nel senso che dopo di lui (anni 70) la boxe ha continuato a esistere, e i campioni pure, ma ha smesso di essere ciò che aveva rappresentato per due decenni nell’ immaginario collettivo del nostro Paese: lo sport che cominciava dal popolo e arrivava al cuore del popolo. Per questa ragione tipi come Arcari, ma anche come Benvenuti, Mazzinghi, Loi, Bossi o Lopopolo, sembrano più antichi di quanto siano in realtà: dai loro momenti sono trascorsi quarant’ anni e oltre, ma è come se fossero passati secoli. Sono reperti storici, eppure preziosi: testimoni militanti del cambiamento del costume sportivo, dell’ evoluzione darwiniana che ha fatto selezione e scempio delle discipline povere, o semplicemente fuori dal tempo, lontane dai gusti nuovi, dalle suggestioni della modernità. «La boxe negli anni 60 e 70 era un gran bel mondo - dice Bruno -. A bordoring c’ era la gente dello spettacolo e del cinema, della tv, facce popolari che venivano a vederci e ci rendevano, a nostra volta, popolari. Ma era un mondo che non mi distraeva: se non ero Batman, nemmeno puntavo ad essere Casanova. Ho sempre interpretato il pugilato come un lavoro da svolgere al meglio, senza distrazioni, sempre ricordando ciò che mi insegnò il mio primo maestro: puoi sentirti il re del mondo, ma basta un decimo di secondo per trovarti col sedere per terra». La boxe di Arcari era scienza e conoscenza, tecnica e ardore, coraggio e sacrificio: il ring lo spazio magico dove misurare i propri sogni e le ambizioni. Come diceva Mike Tyson, «il posto più bello del mondo, perché sai che cosa ti può capitare». Un luogo pericoloso ma affidabile. «Mah, più bello non so - sospira Arcari -. Comunque per vent’ anni sul ring mi sono sentito a casa mia». C’ è un modello importante, sullo sfondo della sua scelta: «Ero ragazzino, avrò avuto sì e no quindici anni, e facevo il garzone a Nervi in un negozio di frutta e verdura. C’ erano alcuni miei amici pazzi per il pugilato: quando combatteva Duilio Loi, e lo faceva spesso a Milano, tiravano fuori la giardinetta e andavano su. Bruno vieni? Spesso mi aggregavo anch’ io: essendo il più piccolo, mi infilavano dietro, nel bagagliaio. Sognavo di essere Loi». La passione per la boxe cominciò così. Col calcio - giocava ala sinistra, rognoso ma tecnicamente grezzo - aveva capito che non avrebbe sfondato. Nato nella Ciociaria tormentata dalla guerra, emigrato a un anno nella Genova che diventerà la sua città, il suo dialetto, la sua vita, Arcari entra alla palestra Mameli per sentirsi prendere in giro da Alfonso Speranza e Armando Causa, i due maestri di boxe: «Tu il pugile? Ma dai, hai le gambe troppo grosse»! «Era un modo per verificare la mia "vocazione" - ricorda oggi Bruno -. Mi dissero di tornare il giorno dopo. Forse pensavano: questo qui rinuncia. Tornai. Non sono più uscito da quel mondo». Il giovane Arcari picchia duro col mancino: chi conosce un po’ di pugilato sa che cosa significa. Il braccio destro è teso in avanti, a far da radar; quello sinistro è raccolto, pronto a scattare verso il bersaglio. un problema per gli avversari impostati in guardia normale, ma anche per chi lo è: colpire bene un destrimano significa esporsi a rischi maggiori, perché maggiore è la distanza da coprire se si vuole aggirare la difesa. Un confronto sul ring tra un destro e un mancino rischia di trasformarsi in una partita a scacchi, molto sorvegliata e poco spettacolare. Ma Arcari ha saputo ribaltare anche questo luogo comune: sul ring, quando c’ era lui, aleggiava sempre l’ emozione elettrica del colpo letale. I suoi match portavano il timbro della sfida scintillante. Tranne quello, ricorda, del primo titolo mondiale, a Roma il 31 gennaio 1970, avversario Pedro «the rugged» Adigue, Pedro il ruvido, un filippino che sapeva colpire con ogni mezzo lecito e anche illecito. Arcari è come se fosse ancora sul quadrato: «Rischiai il k.o. al terzo round, ma mi ripresi e vinsi ai punti. Fu un match cattivo, non bello: a me importava solo vincere. La mia borsa era di un milione, Pedro ne aveva presi 50. Forza Bruno, mi dicevo, se diventi campione sarai tu ad avere cifre così importanti. Non ero Batman, non ero Casanova e neppure Rockefeller. Volevo vincere perché sapevo che la mia vita avrebbe svoltato. E allora giù pugni, testate, gomitate. Fu una battaglia». E il più bello, Bruno? Qual è stato il match più bello? «Vienna 1968, l’ europeo contro Orsolics: misi a tacere 15 mila tifosi austriaci che per tutto il combattimento avevano pestato i piedi facendo tremare il palazzetto». Johannes Orsolics era giovane, bello e vincente. Un predestinato. Il confronto venne ripreso in diretta dall’ eurovisione: cominciò quella sera, con quella vittoria, l’ epopea pugilistica di Arcari. La tv fece da volano alla sua popolarità: il secondo match contro il brasiliano Henrique, 10 giugno ’ 72 a Genova, totalizzò lo sbalorditivo share dell’ 87 per cento. Con Giacomo Agostini, il superasso delle moto, Arcari era il personaggio sportivo più conosciuto del momento. Ma si comportava come se nulla fosse accaduto. Un antidivo. «Mi chiamavano da tutte le parti, ma io pensavo soltanto al lavoro, a prepararmi bene. Da campione mondiale le borse migliori toccavano a me: più restavo al vertice, più guadagnavo. Fine della storia». Il suo manager era Rocco Agostino, uno dei totem della boxe italiana: ex tranviere genovese, si era formato, come amava dire, «all’ università della strada», e dunque aveva familiarità con le battaglie della vita. Un binomio inscindibile, il loro, che portò Arcari a diventare il re del pugilato italiano. Ma quanto re? Più di Benvenuti? Di Loi? Di Carnera? Un esperto come Rino Tommasi, che da organizzatore allestì alcuni match del campione, ha scritto di considerare Arcari «il miglior pugile italiano di ogni epoca, nei limiti in cui un’ affermazione del genere è possibile». Sono in molti a pensarla come lui. Bruno sorride e analizza: «Benvenuti è stato più grande da dilettante che da professionista. Aveva poco fisico e lo si è visto quando ha perso con Monzon. Loi era un maestro, come faccio a dire che ero meglio di lui? Un pareggio va bene? Ma sì: Duilio e io in cima alla storia, gli altri dietro, questa la mia classifica». Dalla collina di Deiva Marina, Levante ligure, dove vive sotto l’ attenta regia della moglie Maura, «il pilastro della mia vita», bisogna scendere in paese per vedere il mare. Il «pensionato» Arcari, qui, lo conoscono tutti. Conoscono le sue mosse: un caffè al Bar Sereno, il covo degli arcariani, una passeggiata, un po’ di spiaggia d’ estate, l’ aria salata a smuovere, di tanto in tanto, i ricordi. stato assessore in Comune: il sindaco lo chiama ancora per qualche consiglio. stato consigliere della Federboxe: un anno fa ha detto basta. Oggi la sua vita è il tranquillo riflesso di una carriera non sprecata: «Non serve guadagnare miliardi per organizzare la tua esistenza. Io ho saputo tenere i piedi ben piantati a terra anche quando mi sembrava di toccare il cielo con un dito». Campioni si diventa, ma un po’ anche si nasce.
Claudio Colombo