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 2010  luglio 11 Domenica calendario

«A SREBRENICA SONO MORTI ANCHE I VIVI»

«Sono sopravvissuto. Avrei potuto chiamarmi Muhamed, Ibrahim, Isak, ma non ha importanza. Io sono sopravvissuto, molti no. Fra la loro morte e la mia vita non c’è alcuna differenza, perché sono rimasto a vivere in un mondo che in modo duraturo, irreversibile, è stato segnato dalla loro morte». Emir Suljagic si è salvato perché faceva il traduttore per le Nazioni Unite a Srebrenica. Uno dei 17 nomi bosniaco-musulmani sulla lista vistata dai serbi a cui è stato concesso di uscire sull’ultimo camion dei soldati olandesi. Su Srebrenica ha scritto un libro spaventoso, pacato e bellissimo, Cartoline dalla fossa (Beit), che esce la settimana prossima anche in Italia. E’ il primo diario sul massacro di 8 mila uomini musulmani da parte dei serbi di Mladic, avvenuto tra l’11 e il 16 luglio 1995. Ma è più di questo, perché – lo capirete leggendo, mentre quasi tutti in Europa lo ignorano – Srebrenica ha inizio prima di Srebrenica. «Sono stati – dice Suljagic – tre anni di assedio e cinque giorni».
Oggi Emir sarà nell’ex enclave Onu, dove si era rifugiato a 17 anni nel 1992, come tanti altri. Ci saranno le 5mila persone partite una settimana fa da Tuzla, 105 km di marcia in senso inverso sui sentieri dove i serbi hanno inseguito e sterminato le colonne dei loro parenti. Ci saranno, per la prima volta, a seppellire le 775 bare con i resti delle vittime identificate, il presidente croato Ivo Josipovic e quello serbo Boris Tadic. Presente Erdogan, assente l’Onu. Intanto, sulla porta di Brandeburgo a Berlino, l’artista Philip Ruch rovescerà 8.372 scarpe. Come quelle che non sono servite nella fuga. Quando ne raccoglierà 16 mila, costruirà un monumento di cemento sopra Srebrenica, a forma delle lettere UN e lo riempirà di scarponi e mocassini, in sfregio all’Onu che non intervenne. Si allineano scarpe anche a Belgrado, sulla Kneza Mihajlova: le portano i serbi che chiedono perdono.
Perdóno? « Quello che so – dice Suljagic al telefono’ è che il governo serbo ancora non consegna Mladic. Tutti sanno che si nasconde lì. Neppure ai nazisti è stato permesso ciò che l’Europa sta permettendo alla Serbia». Lui Mladic l’ha incontrato l’11 luglio di 15 anni fa, e gli deve la vita. Fu quando i soldati serbi, ormai padroni della base olandese di Potocari, lo portarono dal generale. Si salvò perché gli mostrò il tesserino dell’Onu e poi lo reclamò indietro (eccome, se gli sarebbe servito i giorni seguenti!). Mladic restò in silenzio alcuni secondi e acconsentì. «Sono sopravvissuto perché Mladic quel giorno si sentiva Dio: aveva il potere assoluto di decidere sulla vita e sulla morte. In seguito per mesi lo sognai ogni notte. Mi svegliavo e mi veniva da vomitare per il fetore che gli alitava dalla bocca, nelle mie narici era rimasta la puzza dell’alcol. Temevo che sarei impazzito cercando di spiegarmi perché mi avesse risparmiato».
I sopravvissuti di Srebrenica, dice Tony Judt, hanno la sindrome della colpa come i sopravvissuti dei lager. E c’è qualcosa, in questo racconto dei tre anni vissuti in condizioni estreme da 20 mila profughi circondati dai serbi, che fa pensare alle pagine di Primo Levi o a Necropoli di Boris Pahor. «La chiamavano enclave. In realtà, era molto più simile a un ghetto o a un campo di concentramento senza fili spinati e camere a gas». Srebrenica, piuttosto, era il mondo dove si dimenticava che «una volta avevamo vite differenti», dove la sopravvivenza dipendeva dalla «rapidità con la quale si accettava che nel nuovo mondo non si poteva portare nulla di quello vecchio», che «l’educazione non valevano un fico secco». Era la fame, i pacchetti di sigarette contrabbandati a 150 marchi, il disperato desiderio di sale. Era uno zio ucciso perché, inseguendo i «pacchi caduti dal cielo», aveva varcato il campo di un contadino. Erano le morti come ladri portando in spalla pacchi di farina da 50 chili. «I serbi ci trattavano da animali e noi dopo un po’ di tempo ci comportavamo come tali».
Un mondo siffatto era governato dalla feccia, che si era adattata meglio. «La cosa più triste della tragedia bosniaca – dice Suljagic, che non risparmia la leadership musulmana – è che nel momento decisivo della storia avevamo una leadership rozza e inesperta, incapace di affrontare gli avvenimenti». Srebrenica era una replica in piccolo della Bosnia. Il mercato nero in mano allo stesso Naser Oric che guidava le difese e i contrattacchi militari. I malefici camion che arrivavano in città e rastrellavano ragazzi musulmani inseguendoli fin dentro le case per sbatterli al fronte. Con una brutalità non diversa da quella dei serbi. Poi arrivò il luglio ’95. Otto mila morti. «I serbi’ dice lui ora’ compirono su vasta scala ciò che in piccolo facevano da tre anni». Non senza il tradimento dei militari olandesi, che consegnarono i profughi accorsi nella loro base direttamente in mano a Mladic. Emir restò sconvolto dal loro burocratico disinteresse. Come quello del vicecomandante olandese Franken, per il quale doveva scrivere la «lista della salvezza», i nomi dei «dipendenti locali» dell’Onu da «risparmiare». Ci aggiunse il fratello d’un altro interprete, camuffandolo da uomo delle pulizie. «No, non è vero’ gli disse Franken ”. Lui non lavora da voi». Afferrò un pennarello rosa e lo cancellò. «Non posso credere – scrive Emir nel libro – che l’abbia fatto con il pennarello rosa». Quel ragazzo si chiamava Muhamed Braco Nuhanovic. Domani, si legge dagli elenchi ufficiali, sarà sepolto in una delle 775 bare.
Mara Gergolet