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 2010  luglio 11 Domenica calendario

ALLA TATE MODERN VI SPIANO

La mostra «Exposed: Voyeurism, Surveillance and the Camera» appena inaugurata alla Tate Modern di Londra prende in esame la fotografia come atto intrusivo e indaga temi caldi come quella della privacy e della proprietà.
La mostra è divisa in sezioni ( Il fotografo non visto , Celebrità e sguardo pubblico, Voyeurismo e desiderio, Testimoniare la violenza, Sorveglianza) ed è giocata sul fatto che non solo le immagini esposte sono frutto di azioni furtive e di forme diverse di voyeurismo, ma anche il visitatore si trasforma in voyeur nel momento in cui si trova a guardare immagini rubate, vietate, illecite per i contenuto od oltraggiose per il modo in cui sono state realizzate. Che lo sguardo del fotografo sia perfido, intrigato, compartecipe o spaventato – che ci si trovi di fronte agli effetti della Guerra civile americana o della Guerra del Golfo, a un’esecuzione capitale nella Cina dell’Ottocento o alla camera a gas di un lager nazi-sta, in un bordello o vicino a due innamorati che si baciano ”il macabro, il terribile della vita, ma anche il bello, il quotidiano e il banale possono cambiare di segno quando osservati attraverso quello spioncino che è l’occhio dell’obiettivo. Lo sanno bene gli artisti, da Bruce Nauman, che mappa il proprio studio vuoto durante la notte a Nan Goldin nelle cui immagini trascorrono gli amori e la vita suoi e di un’intera generazione newyorkese. E nel 1970 il giapponese Kohei Yoshiyuki fotografa con nuovi dispositivi ai raggi infrarossi i guardoni che spiano gli amanti notturni nei parchi. Yoshiyuki confessò in seguito di aver cominciato fotografando i voyeur e di aver finito per sentirsi tale lui stesso. Lo stesso vale per noi, che ci troviamo a guardare queste immagini esposte in un corridoio scuro della Tate. Guardare è operazione dalle implicazioni complesse, e noi ci troviamo di frequente a essere complici più o meno inconsapevoli di idee problematiche dal punto di vista morale. Di fatto il voyeurismo è un aspetto della fotografia diffuso, potente, praticato da professionisti e spie, ma anche da artisti, amatori. La mostra si chiede se questo aspetto sia o meno parte integrante del mezzo stesso.
Verrebbe da rispondere con le parole di Diane Arbus, che dedicò la vita a fotografare outsider, eccentrici, i cosiddetti freaks; e che affermò un giorno: «La fotografia rappresentava la licenza di andare dove volevo, di fare ciò che volevo. Ho sempre pensato alla fotografia come a una cosa indecente, e le prime volte che l’ho praticata mi sono sentita perversa». Le cose si complicano però se pensiamo che oggi non solo webcam, telefonini e dispositivi di sorveglianza sono omnipresenti nello spazio pubblico, ma che tendono a essere percepiti come fonti di conforto, di protezione, di entertainement, persino di noia; evidentemente le definizioni di rispetto, di vulnerabilità, di sicurezza possono essere declinate diversamente nel tempo, e la nostra considerazione di ciò che significa guardare ed essere guardati subisce slittamenti.
Con le sue centinaia di immagini «Exposed: Voyeurism, Surveillance and the Camera» è una mostra da vedere e da ripensare. Così come l’altra in corso alla Tate, dedicata a uno dei maggiori artisti del presente, Francis Alys. Entrambe aperte fino all’autunno.