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 2010  luglio 11 Domenica calendario

I COOPERATORI ROSSI? SONO BERLUSCONES

Cooperatori rossi pronti, fra Bologna e Reggio Emilia, Piacenza e Modena, a ritmare come berlusconiani dell’ultima ora «meno male che Silvio c’è...», a intonare il «Va’ pensiero» nella versione biascicata e anti-unitaria della Lega oppure a osservare con incantamento neoperonista Antonio Di Pietro che su un trattore fa il contadino.
Se domani si andasse alle urne, un cooperatore su quattro voterebbe per il Partito delle libertà. Uno su otto per la Lega Nord e uno su dieci per l’Italia dei valori. «Non mi scandalizza mica che i miei non votino in massa per i partiti di sinistra. In Emilia Romagna abbiamo due milioni e mezzo di soci. Siamo quella roba lì», dice con pragmatismo duro e per nulla puro Paolo Cattabiani, presidente regionale di Legacoop, una potenza economica e sociale articolata in 1.600 cooperative, 150mila dipendenti e 30 miliardi di fatturato aggregato all’anno: supermercati, grande distribuzione, servizi alla persona, costruzioni e infrastrutture.
No, non è il mondo alla rovescia. E Cattabiani è sia un manager che un capopopolo. Il cooperatore berluscones, dipietrista o bossiano è la versione più estrema, forse parodizzante ma di certo realistica, di un preciso fenomeno storico. Una tendenza in cui classi e politica, voti e interessi si sono sempre intrecciati con un dinamismo eterodosso e una originalità plastica in fondo già evidenziati da Palmiro Togliatti nel discorso del 24 settembre 1946 su "Ceti medi e Emilia rossa". Una tendenza di lungo periodo che, snodandosi lungo i successi di mercato ottenuti a partire dagli anni Ottanta dalle grandi cooperative (Consorzio Bolognese Ccc, Cmc di Ravenna, Cmb di Carpi nelle infrastrutture più quelle di consumo), porta alla loro graduale emancipazione dal rapporto privilegiato con il partitone rosso, la cui identità e la cui forza politica si è nel frattempo diluita nella filiera Pci-Pds-Ds-Pd. Una fotografia di questo fenomeno, che ha rilevanti implicazioni politiche e culturali, è scattata dall’ultimo rapporto commissionato dalla Legacoop Emilia Romagna alla Swg, che ha interrogato 1.569 persone.
Un sondaggio che fa luce su quello che non si vede. Negli ultimi mesi, infatti, è stato abbastanza visibile il tentativo delle coop di ricollocarsi dall’alto dentro il sistema della rappresentanza degli interessi e degli equilibri politici: basti pensare al tentativo da parte di Gianpiero Calzolari, presidente di Legacoop Bologna, di avere un ruolo nella scelta del successore a sindaco di Flavio Delbono con l’appoggio a un altro big della cooperazione, Luciano Sita. Invece, l’analisi di Swg costituisce il primo fermoimmagine scattato dal basso. Non tanto le coop, ma i singoli cooperatori. «La eterogeneità del popolo delle coop - riflette Maurizio Brioni, direttore della Fondazione Ivano Barberini di Bologna - è una delle radici dell’articolazione di questo sistema. Ci sono mille cooperatori diversi. Come ci sono mille coop diverse. Questa realtà non è mai riuscita, e forse non ha mai voluto, ad unificarsi oltre un certo livello». Dunque, ci sono mille cooperatori diversi: è vero che, alla domanda "lei politicamente dove si colloca più facilmente", il 17% si dice di sinistra e il 32% di centrosinistra. Ma è altrettanto vero che il 12% si dice di centro, il 22% di centrodestra e l’8% di destra, mentre il 10% non sa dove collocarsi. Anzi, rispetto a dieci anni fa il 20% si sente un po’ più di destra e l’8% molto più di destra. Questo slittamento verso destra dei cooperatori diventa ancora più significativo se si guarda alle preferenze di voto, espresse rispondendo al quesito "se si votasse domani per le elezioni politiche, lei quale partito voterebbe?". Il 38% sceglierebbe il Pd, il 3% Rifondazione comunista e l’1% Sinistra e Libertà. Il 24%, nell’urna, darebbe il suo voto al Popolo delle libertà, il 12% alla Lega Nord e il 9% all’Italia dei valori. Su cento, uno voterebbe perfino per Forza Nuova e uno per la Destra. E, fra i cooperatori rossi, si impone anche una tendenza alla indecisione e al non voto, espressa dal 22 per cento.
«Lo scollamento fra politica di sinistra e cooperazione ormai è compiuto: non c’è più una holding politica al piano alto che controlla, al piano basso, il braccio operativo delle coop», dice con linguaggio economicista il politologo Pietro Ignazi, direttore del Mulino. Che aggiunge: «In realtà si tratta di un graduale affievolirsi che dura da oltre trent’anni. Non c’è stato un vero e proprio episodio di rottura». Anche se, uno shock, alcuni osservatori lo ricordano. «Il collateralismo verso il Pd dimostrato da Gianni Consorte nella vicenda Unipol-Bnl - sottolinea Brioni - ha lasciato il segno nel nostro mondo.L’abbiamo una banca non è andato giù a molti. Anche perché antistorico: è dagli anni 80 che le coop, giorno dopo giorno, appalto dopo appalto, affare dopo affare, hanno conquistato autonomia dal partito».
Così, oggi vale una sorta di libera tutti. E Cattabiani, che sa cosa vuol dire fare girare i soldi ma anche cosa significa cercare una identità a un popolo variegato e mutevole, ci sta, a indugiare in un pensiero eretico: «La via emiliana all’italocomunismo e le cooperative come antesignane storiche dell’autonomismo? Perché no? Oggi c’è il culto del territorio. Se territorio non significa sangue e suolo ma identità culturale, orgoglio delle radici e anche accoglienza dell’altro, io ci sto. Siamo sempre stati tutto questo, noi cooperatori dell’Emilia Romagna».