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 2010  giugno 15 Martedì calendario

QUELLA LIBERTA’ CHE NON PIACE


Potrebbe essere un’ eccellente occasione, una volta tanto, per un serio dibattito nazionale, nutrito di cultura e tolleranza reciproca, sui fondamenti della nostra vita associata. Dal quale tutti potremmo uscire arricchiti, più consapevoli e rispettosi delle differenze valoriali, dei principi che ci dividono, dei tutt’ altro che banali punti di frattura da sempre presenti nella cultura politica nazionale. Conoscendo il Paese, però, sappiamo già che l’ occasione andrà sprecata. Mi riferisco alla provocazione (a cui il ministro dell’ Economia, come ha appena annunciato, farà seguire provvedimenti concreti) fatta da Giulio Tremonti a proposito dell’ articolo 41 della Costituzione, quello che, pur dichiarando libera l’ attività economica privata, la vincola a essere «indirizzata e coordinata a fini sociali» dalla legge dello Stato. Finirà, come al solito, con insulti reciproci: «siete rimasti dei totalitari», di qua, «e voi volete solo fare regali agli imprenditori disonesti e alla mafia», di là. Ben pochi, alla fine, saranno disposti a riconoscere che nella querelle apertasi su questo tema, a confrontarsi sono due concezioni (l’ una che esalta il ruolo dello Stato nel perseguimento di «fini sociali» e l’ altra che esalta il valore prioritario della libertà individuale) che, con i loro scontri di principio, ma anche con i loro compromessi, hanno fatto la storia delle democrazie europee, anche della nostra. vero, come è stato da più parti affermato (Valerio Onida, Benedetto Della Vedova, Enrico Morando) che l’ art. 41 non ha mai impedito di liberare le imprese dai pesantissimi lacci e lacciuoli burocratici che le vincolano. Ed è certamente vero che se un eccesso di vincoli incombe sulla libera impresa ciò si deve prima di tutto a un deficit di volontà politica, che se il principio liberale, richiamato da Tremonti, secondo cui «è nella libera disponibilità di ciascuno ciò che non è esplicitamente vietato», non è mai diventato realtà in questo Paese, ciò si deve tuttora alla prevalenza, a destra come a sinistra (e, più in generale, nella società italiana), di istinti e interessi corporativi piuttosto che di vocazioni liberali. Ed è infine corretto criticare l’ attuale maggioranza quando, come spesso fa, razzola male, quando, anziché sfoltirle, difende le bardature corporative e non smantella i mercati protetti. Però, è anche vero che la Costituzione rappresenta la carta di identità di una comunità politica e ciò che vi è scritto o non vi è scritto non è privo di effetti per le sorti di quella comunità e dei suoi costumi. Non è e non può essere senza conseguenze che l’ art. 41 non faccia menzione del mercato e della concorrenza (indipendentemente dal fatto che queste cose siano presenti nella legge europea). E non è e non può essere senza conseguenze il fatto che la Costituzione non impedisca alla politica di imporre vincoli impropri (qualunque cosa può essere giustificata in nome della «utilità sociale») alla libera iniziativa. E difatti le conseguenze, nella storia repubblicana, si sono viste, eccome. Non mi pare, sinceramente, un buon modo di impostare la discussione quello, liquidatorio, scelto da Michele Ainis (La Stampa, 8 giugno) secondo cui tutto ciò che fa l’ art. 41 imponendo controlli che indirizzino e coordinino a fini sociali l’ attività di impresa è impedire che ciascuno faccia «come gli pare». «Sarebbe come predicare - dice Ainis - la sicurezza sulle strade, licenziando al contempo tutti i vigili urbani». Scrivendo ciò si banalizza eccessivamente la questione e si sostiene implicitamente che ragionevolezza e preoccupazione per la cosa pubblica siano prerogative esclusive di chi difende l’ art. 41 così come è, e che solo irragionevolezza e disvalori stiano dalla parte dei fautori di una revisione. Perché non riconoscere francamente che l’ art. 41, come altri articoli della prima parte della Costituzione, risente fortemente del clima culturale in cui venne redatto e delle caratteristiche ideologiche, nonché delle propensioni dirigiste, delle forze politiche dominanti alla Assemblea costituente? Naturalmente, non c’ è nulla di male se si rimane fedeli a quella impostazione ideologica. A patto, però, che lo si dica apertamente. Dopo di che, è vero che riforme liberali si possono fare anche senza intervenire sulla Carta ma dove sarebbe il male se si volesse poi difenderle, metterle in sicurezza, con qualche coerente intervento di revisione costituzionale? In Italia si sono sempre scontrate due visioni, quella che, avendo scarsa fiducia negli effetti socialmente benefici della libertà individuale, preferisce limitarla e controllarla affidando solo allo Stato il compito di perseguire il bene comune (solidarietà sociale, giustizia distributiva, e altro ancora) e quella che scommette sul fatto che gli effetti benefici della libertà sopravanzino gli effetti negativi, che il bene comune scaturisca soprattutto dall’ esercizio della libertà dei tanti e non dalla sua limitazione, e che, infine, diffida di uno Stato (e quindi della politica) che in nome di una qualche definizione del bene comune pretenda di limitare la libertà di ciascuno anche quando essa non entri manifestamente in conflitto con la libertà degli altri. evidente che la vita costituzionale e politica di una democrazia non può che nutrirsi, di volta in volta, di contingenti compromessi pratici fra queste due opposte visioni. Ma sarebbe già qualcosa se si riconoscesse la dignità di entrambe.