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 2010  giugno 18 Venerdì calendario

IL MATCH DI HOWARD CON TOURETTE

Nel silenzio del ritiro degli Usa, tra papere e mucche, tra poliziotti discreti e misure di sicurezza ingenti ma non oppressive, Tim Howard difende la propria serenità e la porta degli Stati Uniti che oggi affrontano la Slovenia. Non si fa spaventare dallo Jabulani: «Se vai in campo – spiega – e non ti fidi della tua preparazione, del tuo occhio, parti prevenuto: tutti giochiamo con lo stesso pallone, è inutile lamentarsi». Non si fa condizionare dai primi tiri che come saponette sono finiti alle spalle dei portieri, a partire da quello dell’americano Dempsey fatale per Green, che ha sancito il pareggio tra Usa e l’Inghilterra. E poi Howard, nato 31 anni fa nel New Jersey, di sicuro non conosce il collega Faroppa: difendeva la porta dell’Italia negli anni Venti del Novecento e di lui, dopo un 3-4 con la Francia a Torino, quattro gol su errori tutti suoi, Umberto Meazza, ct e giornalista, scrisse: «Era lì goffo, coi piedi larghi, sembrava una papera».
Per Tim le papere sono solo gli animali che vede dalla sua camera del ritiro e tanto gli basta per essere concentrato e avere i tifosi americani dalla sua parte. Nella prima gara del Mondiale contro gli inglesi il portiere, che gioca a Liverpool con l’Everton, è stato il migliore in campo: nessuna colpa sul gol di Gerrard, decisivo su Heskey. Per gli americani che amano certe storie è già un eroe: ha una costola incrinata, ma giocherà lo stesso, stringendo i denti come Rambo, e anche fuori dal campo è uno che non molla. Howard è affetto dalla sindrome di Tourette, un disordine neurologico per cui all’improvviso urla anche in mezzo alla gente, pronuncia sconcezze e insulti. La sua faccia, a tratti, è una giostra incontrollabile di tic ma ormai ha fatto l’abitudine agli sguardi straniti delle persone: «Chiunque si avvicini a me adesso cerca di scrutarmi il viso, vuole scorgere qualche segnale, ma non mi succede sempre. In campo spesso grido in modo con-sapevole per dirigere la difesa: voglio che davanti a me difendano come banditi ». Tutto inizia quando Tim ha tre anni: il papà camionista americano e la mamma ungherese che vendeva cosmetici si separano. Quel trauma non è passato come acqua sulla pelle: « tutta la vita che affronto sfide di ogni tipo», spiega. L’ultima è raccogliere fondi per la ricerca contro la sindrome di Tourette: «Credo in Dio – confessa ”: la vita è un bonus che dobbiamo usare al meglio, non contano la fama, il lavoro, i soldi, conta aiutare gli altri».
Come fa anche Jozy Altidore. L’attaccante, 21 anni, gioca con gli Usa, è stato uno dei migliori nella prima gara contro l’Inghilterra: «Macché impacciato il portiere inglese Green – impreca questo ragazzone di colore ”, è stato ingannato dal pallone di Dempsey. Poi, però, quando ho tirato io e stavo per esultare, ha fatto una grande parata. Per passare agli ottavi, il nostro obiettivo, dobbiamo vincere contro la Slovenia».
Altidore viene da lontano. Cresciuto in Florida, è figlio di genitori haitiani: «Quando ero bambino – ricorda – eravamo poverissimi, mia madre guadagnava 300 dollari al mese, mio padre 400». Jozy passava il suo tempo in cortile, a prendere a calci lattine di Coca- cola e stracci, andava in una scuola pubblica frequentata da bambini con pochi soldi, fino al giorno in cui, in un summer campus, vide il film The game of their lives, che racconta la storica vittoria degli Usa contro l’Inghilterra nel 1950 a Belo Horizonte: «Quel film mi cambiò la vita». Ha iniziato a fare il calciatore nell’Img Soccer Academy, in Florida, poi è venuto il momento di scegliere in quale nazionale giocare, Usa o Haiti: «Le mie radici sono lì, ma gli Usa mi hanno cresciuto: devo molto a questo paese». Sì, le radici, quell’onda lunga che non passa mai,che batte sempre sul bagnasciuga del cuore. Il terremoto che ha colpito Haiti a gennaio ha sconvolto anche la vita di Altidore: «Nessuno dei miei parenti è morto – dice – ma ho fatto un pessimo campionato nell’Hull City,in Inghilterra. Ogni notte mi svegliavo all’improvviso senza riuscire a riaddormentarmi ». Una tortura che esorcizzato con la sua notorietà: «Ho usato Facebook e Twitter per lanciare il mio urlo di allarme per sensibilizzare tutto il mondo». I social network hanno pacificato la sua angoscia: migliaia di messaggi e molte donazioni di denaro. Ora non gli resta che segnare contro la Slovenia e mostrarci il messaggio che ha scritto per Haiti sulla sua sottomaglia. Siamo curiosi.