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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

MELFI E TERMOLI, STORIA DELLE FIRME PESANTI DEL SINDACATO PI OSTICO

Melfi, terra di Lucania, anni Novanta. Non c’era ancora la fabbrica e già veniva rivenduta come un gioiello di ”toyotismo”. Fiat da una parte del tavolo, Fiom-Cgil, Fim-Cisl, Uilm e Fismic, dall’altra.
L’accordo è rivoluzionario. Simile per certi aspetti a quello firmato oggi a Pomigliano. Prevedeva il lavoro notturno, salvando quello domenicale solo grazie a una complicata distribuzione della manutenzione e dei manutentori. La Fiom firma per due volte di fila. La prima volta il 18 dicembre 1990, a Torino, sull’accordo quadro (riguardava anche Pratola Serra): segretario generale è il comunista Fausto Vigevani, responsabile del settore Auto è Luigi Mazzone, altro iscritto al Pci. La seconda firma arriva l’11 giugno del 1993. Questa volta il segretario generale è Claudio Sabattini, mentre segretario generale aggiunto è Cesare Damiano. Accanto a lui c’è Pierpaolo Baretta, una vita in Cisl e, soprattutto, in Fim-Cisl: prima in segreteria, poi segretario generale.
A casa Fiom, stavolta, partono le proteste. Damiano firma ma - come gli succederà tante altre volte - «con riserva». La Fiom, cioè, si riserva la carta di consultare i propri iscritti (di referendum, allora, non parlava nessuno, tranne Giorgio Benvenuto e la Uilm). Passano gli anni, dalla Basilicata si passa al Molise. Termoli, ridente cittadina adriatica, una vita placida fatta di pesca, turismo, commercio. E di Fiat, presente già dagli anni Settanta con tre stabilimenti. Corre l’anno 1994. «L’azienda aveva il problema di dove fare i motori delle nuove auto, se in Italia o all’estero», ricorda Baretta. «Chiese più ore, più turni, più giorni, festivi compresi. Era un prendere o lasciare, come ora. Scoppiò un putiferio. Ricordo un’assemblea in cui i contestatori salivano sulle sedie. E io pure». L’accordo viene firmato il 15 novembre 1994, anche dalla Fiom. Ma stavolta il referendum si fa. E i lavoratori bocciano l’accordo, con un rotondo 65 per cento di no. Stupore generale. Poi, si scatena la canea. La classe politica locale e perfino il vescovo dell’epoca, Domenico D’Ambrosio, chiedono ai lavoratori di firmare in nome dell’occupazione. Sabattini e il suo braccio destro Damiano, vanno a Termoli e convincono gli operai. Il 16 dicembre c’è il ribaltone: vince il sì.
«Quando la Fiom era la Fiom e alla sua guida c’era Sabattini, gli accordi li firmava eccome. Poi, è diventata un specie di meta-partito, la casa di tutta la sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento» è la considerazione che fanno oggi due onorevoli del Pd. Si chiamano, appunto, Pierpaolo Baretta e Cesare Damiano. Pur provenendo da storie politiche diverse, oggi militano entrambi nel Pd. Stanno entrambi nel correntone di ”Area dem”, gorgo politico che, in sostanza, sta all’opposizione (interna) di Bersani. Non sono animati da malanimo, verso la Fiom: ci hanno passato una vita dentro (Damiano) o di fianco (Baretta).
Resta, però, il giudizio sull’attuale corso della Fiom. Ed è negativo: «La storia della Fiom, e dei suoi più grandi leader è una storia di lotte fatte e condotte fino all’ultimo. Ma è anche una storia di accordi dove si puntava a raggiungere il massimo, nel corso della trattativa, si facevano le notti e le albe, ai tavoli, ma poi gli accordi venivano sottoscritti. E venivano rispettati». Poi non è stato più così, sembrano dire. A partire da quando alla guida della Fiom è arrivato Gianni Rinaldini, pupillo - con Giorgio Cremaschi, che poi è il vero rebelde di casa Fiom - di Sabattini. Rinaldini è stato sostituito da poco dall’ennesimo discepolo, Maurizio Landini, ma la sostanza non cambia.
Il resto, appunto, è cronaca. «Da Rinaldini in poi la Fiom si è sempre più progressivamente politicizzata - spiega Damiano - fino al punto di arrivare a teorizzare l’idea del ”quarto sindacato”, o meglio di una Fiom che doveva diventare non solo ”autonoma”, ma anche ”indipendente”, dalla Cgil. Contro tale scelta, come componente riformista della Cgil e della Fiom, ci battemmo, in diversi congressi, a partire da quello del 1996, ma quella battaglia la perdemmo». In effetti, fare ”il riformista” dentro la Fiom vuol dire, di fatto, votarsi a una vita tutta di minoranza.