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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

I FUNERALI DI MONS. PADOVESE SULL’UNITA’


In un giorno fra i più tristi dei troppi anni in cui si è dilettato a guardare l’Italia dal balcone di Piazza Venezia, proprio nelle ore in cui per boria e insipienza scaraventava il nostro Paese nella fornace della seconda guerra mondiale, pare che Mussolini confidasse ai suoi: «Ho bisogno di qualche migliaia di morti da gettare sul tavolo dei vincitori». Per chi continua a distrarsi dalla realtà per guardare il mondo soprattutto dai balconi romani, questa deve essere una tentazione dura da cancellare.

Dopo che le spoglie di monsignor Luigi Padovese, il vescovo martirizzato a Iskenderun, sono state rimpatriate con una mancanza di sensibilità che oltrepassa il vilipendio di cadavere, lunedì scorso a Milano ai suoi funerali, in tanti si sono dimostrati sbadati. La Conferenza Episcopale Italiana, se c’era, non era rappresentata da nessuno dei suoi vertici.

Per giungere al capoluogo lombardo da Genova, dove risiede il presidente Cei, e da Vicenza (sede di un vicepresidente che sta tentando un revival di protagonismo) il viaggio sarebbe stato breve. Da Roma poi, da dove il segretario generale della Cei monsignor Crociata si assenta spesso per motivi di ufficio, le quattro ore di treno per giungere a Milano non sembrava potessero rappresentare un problema.

E neppure i capi della Congregazione per le Chiese Orientali, dicastero dal quale la diocesi di Iskenderun e le altre diocesi turche sono coordinate, hanno affrontato il disturbo per monsignor Padovese. C’erano gli arcivescovi Bertello e Farah a rappresentare il Papa: il primo è nunzio apostolico in Italia, il secondo è un pensionato che ha servito la diplomazia vaticana anche in Turchia.

Ma c’era, soprattutto, quel monsignor Ruggero Franceschini - predecessore e successore del martire Padovese sulla cattedra episcopale insanguinata di Iskenderun - al quale è stato imposto di far leggere in anticipo il suo discorso al cardinale Dionigi Tettamanzi, l’arcivescovo di Milano che, come capo della Chiesa ambrosiana, ha sopperito generosamente alle sapidità degli uomini di quella romana. Franceschini è un frate cappuccino come lo era Padovese.

Nelle parole dell’arcivescovo di Milano non si è ascoltato alcun richiamo a questa forte connotazione ideale del martire e della famiglia ecclesiale alla quale apparteneva, né alcun "grazie" all’ordine francescano-cappuccino. La storia è sempre la solita: i poveri ci mettono i morti, gli altri pensano a tenere occupate le sedie al tavolo dei vincitori.

Monsignor Franceschini, dopo aver premesso l’inutilità di un suo elogio funebre per il confratello, «perché chi ha testimoniato con il sangue non ha bisogno di parole e neanche di miracoli », ha chiesto aiuto ai giornalisti (eh sì, proprio a loro) affinché aprano una finestra da cui i cristiani della Turchia siano messi in condizione di raccontare il «dolore della Chiesa che la abita» e possano far sentire «la voce di chi non ha neanche la libertà di gridare la propria pena, la verità e la giustizia, al di là di ogni umana convenienza».

Di "tavoli dei vincitori", proprio nei giorni del martirio del mite, colto e fraterno padre Luigi abbiamomolto sentito parlare. C’è il tavolo della pizzeria a ridosso del Vaticano dove tonache rosso-porpora (colore che, a parole, simboleggia un giuramento di fedeltà alla Chiesa e al Papa anche a costo dell’effusione del sangue) si incontravano con gli ormai noti "gentiluomini" per ricevere (come ha scritto don Paolo Farinella) «la loro ricompensa di pagani e il ripudio di Dio».


Poi abbiamo sentito la descrizione del tavolo ministerialedove qualcuno si è presentato con la lista dei duemila appartamenti che Propaganda Fide possiede a Roma, lascito di poveri della città eterna a favore dei poveri del mondo, per far fare - dice sempre donFarinella citando il cardinale Siri - «carriere a prelati con la testa svitabile».

E poi,come ha detto il coraggioso monsignor Franceschini, «al di là di ogni umana convenienza », c’è il tavolo del ciellino importante che - a gratis - dava appartamenti in Via Giulia solo per non perdere occasione di infangare la Chiesa con ogni sorta di malaffare, siano essi affari giuridici oppure morali. Nei giorni del lutto di monsignor Padovese, nelle redazioni dei giornali sono arrivate buste con l’intestazione di «30 giorni», rivista che si proclama «nella Chiesa e nel mondo».

Contiene un aureo libro, con prefazione di Giulio Andreotti intitolato «Il viaggio del Leader. Muammar Gheddafi in Italia». Sono i discorsi che il complice della vergogna umanitaria più grave della storia italiana recente, ha tenuto nel nostro Paese quando è venuto a prendere i soldi di Giuda per il sangue dei suoi fratelli africani. Forse ha ragione Giuliano Ferrara nel sostenere che esiste una Chiesa disincantata, difficile da abolire solo «con un tratto di irenismo incantato».

Filippo Di Giacomo, l’Unità