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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

Pagliuzze, travi ed eroi Severino Cesari («Non prendiamocela con una fiaccola nel buio», il manifesto 11 giugno) entra nel merito del mio «pamphlet» sul fenomeno Gomorra-Saviano) e lo stronca in base ai miei errori fattuali

Pagliuzze, travi ed eroi Severino Cesari («Non prendiamocela con una fiaccola nel buio», il manifesto 11 giugno) entra nel merito del mio «pamphlet» sul fenomeno Gomorra-Saviano) e lo stronca in base ai miei errori fattuali. In sostanza, avrei riportato cose che Saviano, in Gomorra e altri testi, non dice. Da qui, evidentemente, l’infondatezza di quanto scrivo. Come è detto in una delle amabili e-mail non firmate che ho ricevuto (e che ovviamente conservo gelosamente), le mie sarebbero tutte «stupide fandonie», ecc.. Si rassicurino tutti i lettori indignati: non ho alcun problema a confessare i miei delitti cartacei. Eccone alcuni. Come Cesari mi rimprovera, è verissimo che, laddove Saviano scrive «stivaletti», io cito «stivali». Chiedo venia. Vuol dire che un giorno o l’altro, se Cesari vorrà, in un pubblico dibattito discuteremo sulla classe logica degli oggetti «calzature». Uno «stivaletto» appartiene alla classe «stivali», come io malignamente faccio intendere, o «scarpe sportive», come ritiene Cesari sulla scorta di Saviano? Il dibattito sarà senz’altro appassionante. Secondo Cesari, inoltre, ho citato affermazioni di Saviano, riportate da un giornalista, in occasione di una «manifestazione anticamorra», e avrei dovuto citare «una trasmissione televisiva». Mi dichiaro touché, dottor Cesari. Se mai il mio libretto avrà una riedizione, correggerò con «dichiarazioni anti-camorra durante una trasmissione televisiva». soddisfatto? Lei dice anche che io attribuisco a Saviano la parola «olocausto», a proposito dei morti di camorra, mentre invece è nel titolo di un articolo a firma Dario Del Porto. Qui, temo, è lei a essere un po’ frettoloso. Infatti, io cito esattamente l’articolo in questione, con tanto di nome del giornalista (Eroi di carta, p. 25, nota 11). Mi fermo qui, perché a me le contro-critiche di Cesari sembrano solo considerazioni notarili, allo scopo evidente di emarginare i miei argomenti, evidentemente imbarazzanti. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo?». Così recita un noto passo del Vangelo, che mi sembra assai pertinente in queste discussioni, e non su stivali o stivaletti, note a pié di pagina, titoli fraintesi e qualsiasi altra «fandonia», ma sul senso di Gomorra e dei suoi effetti, sulla straordinaria figura pubblica del suo autore, su gran parte dei media che ne assumono la difesa preventiva e censoria contro chicchessia e, di conseguenza, sulla cultura politica e letteraria del nostro paese. Lei su tutto questo, caro Cesari, non ha detto proprio nulla. E voglio aggiungere, prima di passare a una cosa molto più seria, che io offro ai miei lettori citazioni assai estese degli scritti di Roberto Saviano e numerosi esempi del suo stile (che io ritengo mediocre, a torto o ragione, ma su cui lei glissa). Cito anche brani di interviste a Saviano, ma sì, che fino a prova (o smentita) contraria sono strumenti legittimi di lavoro per un critico. Almeno per uno, come me, che interpreta quello che legge, bene o male che sia, e lo cita, ciò che il Saviano «indagatore» del crimine organizzato non fa, almeno in Gomorra. A proposito di pagliuzze, travi, «fandonie», interpretazioni, invenzioni e documentazioni, che mi dice della pagina iniziale di Gomorra, in cui si parla del famoso caso dei «cinesi che non muoiono mai»? Lei sa bene che l’incipit di un romanzo (o qualsiasi altra cosa sia Gomorra) è decisivo per creare la Stimmung, e cioè l’atmosfera emotiva, di un libro e quindi la sua verità presso i lettori. Ora, lei dovrebbe sapere che sia in un libro-inchiesta sui cinesi in Italia (da me citato, in Eroi di carta, p. 69, n.47), sia nel sito delle Associazioni dei cinesi in Italia (idem), la storia dei cinesi è stata giudicata semplicemente una leggenda metropolitana. E questo, per di più, in un paese in cui l’immagine degli stranieri non è esattamente rosea... Io mi limito a ribadire: se Gomorra è un testo d’invenzione letteraria, lo giudicheremo - liberamente - in base al suo stile. Ma se è un testo che pretende di dire la «verità» fattuale o morale su Napoli, il crimine, la camorra ecc., la storia dei cinesi getta un’ombra lunga sulla sua «verità». E quindi mi aspetto, prima o poi, delle risposte, magari da lei, sulle domande tipiche del buon giornalismo d’inchiesta: «chi», «quando», «dove»? Ecco il problema dell’ambiguità della narrazione in Gomorra, se uno ha letto veramente quello che ho scritto. Lei, dottor Cesari, è nel suo pieno diritto di ignorare gli argomenti sostanziali di Eroi di carta ed estrarre le pagliuzze dai miei occhi. Ma io sono nel mio, quando confermo che nel saggio si discute soprattutto del rapporto tra un testo e l’apparato retorico, editoriale e mediale che l’ha fatto proprio. Ma vi si discute anche della povertà di idee della sinistra italiana e, naturalmente, di letteratura. Per inciso, solo i moralisti da prima pagina (che esistono solo in Italia) possono aver frainteso il titolo del mio saggio per un insulto a Saviano, mentre è il rimando alla mia riflessione sul significato dell’eroismo in una cultura governata dai media (in cui rientrano, appunto, anche i bestseller «letterari»). Questa polemica, così come si è sviluppata, è durata abbastanza. partita dall’ingenua esecrazione di chi ha ordinato di non leggermi, con l’evidente effetto opposto. E anche la sua «lettura», dottor Cesari, non aggiunge molto: è la comprensibile (ma solo in Italia) stroncatura, da parte di un editore, di chi critica un proprio autore. Ma, al di là delle polemiche, il caso Gomorra-Saviano, in termini mediali, resta di grande interesse e invita a ulteriori ricerche e riflessioni. Perché non si tratta tanto di «una fiaccola nel buio», come è titolato il suo pezzo contro di me, quanto di un faro abbacinante che illumina non tanto la «realtà» della camorra, quanto il paese culturale e mediale in cui viviamo.