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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

NEL FANGO DEI VILLAGGI DOVE IL MONDIALE E’ UNA MALEDIZIONE

Per trovare un villaggio dove i Mondiali vengono ignorati, anzi considerati una piaga biblica come le cavallette o la siccità, non occorre inoltrarsi nella savana dove sono i leoni, o spingersi nel deserto al confine con la Namibia tra i boscimani che vivono nudi. Basta una lunga passeggiata fuori Città del Capo. Si lascia Long Street, la via turistica uguale ai quartieri «fusion» del mondo globalizzato – sushi bar, agenzie per viaggi alternativi, ristoranti nippo-brasiliani e italo-messicani ”, salire verso il Bo Kaap, l’antico quartiere malese con la moschea tutta verde e la cattedrale tutta bianca, e inoltrarsi nella bidonville che circonda la Capetown dei bianchi e della borghesia nera.
Qui non c’è la selva di parabole, paesaggio consueto degli slums del Terzo mondo dove non hanno nulla tranne la televisione. Qui la tv non è arrivata. arrivata la Coppa del mondo, quella sì. Ma gli abitanti la considerano una maledizione divina. Perché ha prosciugato le due fonti di sostentamento dell’economia locale: l’accattonaggio e il furto.
Per entrare nel campo non serve la scorta armata, che non abbandona mai le 32 squadre dei Mondiali. Basta un’adeguata mancia per il capovillaggio, che comunque nella città giù in fondo non basterebbe per un taco o una pizza. Il capovillaggio si chiama Abraham Benjamin, ma tutti lo chiamano Baatjies, che significa «giacca». In effetti è vestito come un marinaio inglese di fine ”800, giacca blu e berretto con visiera. Il suo popolo è diviso tra donne, bambini e vecchi, che ispirano compassione, e giovani forti e veloci. I primi vivono chiedendo l’elemosina. I secondi derubando i passanti o le case dei ricchi. Entrambi i gruppi sono ora inattivi. Troppa polizia. Ogni «robot», come qui chiamano i semafori, è presidiato. Ogni albergo ha le guardie ai cancelli. L’altra sera sono arrivati gli agenti per un’ispezione, è finita in rissa a colpi di sassi e bottiglie e hanno portato via un paio di ragazzi. Ieri mattina hanno fatto sapere che saranno rilasciati dopo la semifinale del 6 luglio, purché la comunità dei reietti stia buona. Non resta che lasciar passare la nottata.
Ieri non era un giorno come gli altri. Festa nazionale, in memoria dei moti di Soweto del ”76. E, non casualmente, seconda partita dei Bafana Bafana. Una coincidenza che scatena, se non la rabbia che è sentimento impegnativo, il malumore dei poveri. Molti di loro sono politicizzati, ma detestano il partito unico, l’Anc, raccontano che i vecchi militanti della lotta all’apartheid si sono sostituiti ai bianchi nel controllo della macchina statale, delle ricchezze minerarie e della polizia. Tutti tifano contro la Nazionale. Non sanno neppure dove sia l’Uruguay, ma considerano il calcio il simbolo di una nuova apartheid, che li esclude dai fiumi di denaro che vedono scendere verso il Paese che è anche il loro. E poi qui spazio per giocare a pallone non c’è. C’è un canestro dove i ragazzi giocano a basket con una palla troppo sgonfia.
Il capovillaggio ci accompagna lungo la striscia di abitazioni schiacciate tra la città e la montagna. Vecchie case in muratura diroccate, con un tetto di plastica che fatica a contenere le piogge torrenziali dell’inverno australe. Roulotte arrivate da chissà dove. Baracche di lamiera. Sorrisi sdentati. Odori irrespirabili. Dentro la bidonville c’è un quartiere di piccola borghesia nera, che ora si è fatta costruire un muro di cemento con il filo spinato per non contaminare le sue casette appena decenti con la vita miserabile degli ultimi. Alcuni sono musulmani poveri, cui hanno portato via le case per farne alberghetti o gallerie d’arte colorate, come a Soweto che in certi angoli pare Harlem dopo la rinascita. Altri sono immigrati dallo Zimbabwe, scuri come la pece, licenziati dalle miniere che tagliano il personale. Una roulotte è trasformata in edicola per vendere sottocosto a 2 rand, 20 centesimi, The Zimbabwean, il giornale che ha come motto «dare voce a chi non ha voce»: l’editoriale prende posizione contro le sanzioni a Mugabe, dittatore odioso ma che come sempre uscirà rafforzato dalle privazioni imposte dal mondo al suo popolo.
Dal Waterfront, il porto turistico dove un centinaio di metri qui sotto incrociano navi per turisti che si chiamano «The Spirit of Vodafone» o «Champagne cruises», sale l’odore del pesce fritto e il rumore delle vuvuzela dei tifosi riuniti davanti ai maxischermi per tifare Sudafrica. «Noi odiamo le vuvuzela’ dice il capovillaggio ”. Sono la caricatura del nostro Paese, e non ci lasciano dormire. Odiamo Shosholoza, che era il canto dei minatori e ora è diventato una canzone di successo. Non odiamo Shakira perché sinceramente non sappiamo chi sia. Sappiamo solo che è una bianca cui hanno messo una gonna africana e un costume tipo pelle di zebra. Al massimo, se fossimo di buon umore, potrebbe farci ridere. Siccome siamo nel fango’ Baatjies non dice proprio così, ma questo intende’ speriamo solo che i Bafana Bafana si tolgano di torno, e il Mondiale finisca presto».
Aldo Cazzullo