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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

LO SPETTRO DEL DEBITO SPAVENTA I MERCATI

Che tempi straordinari. Solo poco più di un anno fa il G-20 sanzionò all’unanimità la necessità di espandere le politiche fiscali per farripartire l’economia mondiale, e i mercati salutarono con un’esplosione in borsa. Ancora pochi giorni fa, politici e commentatori europei facevano omaggio formale alla necessità di rigore fiscale nei paesi sud-europei, ma non perdevano occasione per ribadire anche la necessità di mantenere politiche fiscali di sostegno alla domanda nel resto d’Europa, e certamente in Germania. Il G-20 coreano ha annunciato che la priorità ora è il consolidamento fiscale, costi quel che costi; perfino per Dominique Strauss-Kahn, capo di quel Fmi che è stato finora il più convinto sostenitore di politiche espansive alla domanda e della «crescita prima di tutto», il consolidamento va fatto anche se dovesse avere effetti negativi sulla crescita. Incredibilmente, sembra siano rimasti solo gli Stati Uniti a credere in una politica fiscale espansiva; tanto da farci assistere allo spettacolo di un segretario al Tesoro americano che scrive una lettera agli altri membri del G-20 per convincerli a non desistere. Pochi giorni dopo il principale destinatario, la Germania, ha fatto esattamente l’opposto.
Cosa è successo in questo breve lasso di tempo? Semplicemente, i governi europei non hanno più potuto ignorare la pressione dei mercati finanziari. I mercati sono e saranno sempre ambigui sulle politiche fiscali. Da un lato una politica fiscale espansiva sostiene la domanda aggregata, e quindi favorisce la borsa aumentando le prospettive di crescita e i profitti attesi. Questo ai mercati piace. Ma dall’altro un aumento dei disavanzi implica un aumento dell’offerta di titoli pubblici e quindi un aumento dei loro rendimenti, causando uno spiazzamento degli investimenti privati, e in prospettiva una diminuzione della crescita e dei profitti.
Questo ai mercati non piace. Quale interpretazione prevalga nei mercati dipende in parte dalla posizione ciclica. Nel marzo 2009 l’economia e il sistema bancario sembravano in caduta libera, e Usa e Fmi si fecero portatori di una strategia di overwhelming force fiscale. Probabilmente il fattore scatenante è stata la realizzazione dell’intreccio perverso tra questo debito e la salute del sistema bancario. Al contrario degli Usa, in Europa le ricapitalizzazioni e le garanzie implicite o esplicite alle banche, le principali cause dell’aumento del debito pubblico, hanno incentivato le banche a posticipare, anziché affrontare, la pulizia degli attivi. In aggiunta, le garanzie pubbliche hanno spronato le banche ad investire in titoli pubblici divenuti ormai rischiosi. Per questo i mercati attendono con interesse i risultati degli stress test che la Banca centrale spagnola ha in corso e che ha annunciato ieri renderà pubblici a breve. Qualche giorno fa, uno stress test di Moody’s su 30 grandi banche europee è giunto alla conclusione che esse sarebbero in grado di tollerare bene un default del 20% sui titoli pubblici di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna. Ma in una situazione del genere la liquidità dei mercati si esaurirebbe e conterebbe anche l’esposizione al settore privato e al settore bancario, che sarebbe tre volte superiore all’esposizione ai titoli pubblici. Non è chiaro come il test di Moody’s tenga conto di tutto questo. Inoltre, il problema vero probabilmente è in zone dei sistemi bancari, come le cajas spagnole e le Landesbanken tedesche, non coperte dallo studio.
Di fronte a questa decisa virata dei mercati, i governi europei hanno ritenuto di non avere altra scelta che il rigore fiscale; Geithner ritiene che così facendo essi si scavino una fossa più profonda; per Krugman addirittura la posizione europea è «pura follia» e porterà a una «decade perduta». Come è possibile tanta disparità di vedute su una questione così basilare? Il fatto è che in questo campo, molto più che nel campo della politica monetaria, non vi sono certezze. Vari studi accademici dimostrerebbero che consolidamenti fiscali anche sostanziali favoriscono la crescita e l’occupazione, soprattutto se agiscono prevalentemente con tagli di spesa. Ma molti, a cominciare dall’Fmi nella sua veste pre-G20, non ne sono convinti, e continuano a credere in un moltiplicatore keyenesiano della spesa pubblica. Ognuno può citare evidenza empirica e abbondanza di teorie a proprio favore. Di fronte a tanta incertezza la diversità di vedute tra i due lati dell’Atlantico e all’interno dell’Europa, così come i continui ondeggiamenti del mercato, sono inevitabili, e resteranno con noi a lungo.