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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

NEW YORK LA LEGGENDA DEI COLLEZIONISTI DI DETRITI

Intitolato Homer & Langley dai nomi dei due protagonisti, l’ultimo romanzo di E. L. Doctorow (Mondadori, pp. 216, e19,50) è ispirato alla vicenda autentica dei fratelli Collyer, eredi di una famiglia della grande borghesia di Manhattan, che dall’inizio degli Anni Venti al 1947 vissero pressoché sepolti dentro la propria magione nella parte alta della Fifth Avenue. L’uno cieco, l’altro raccoglitore maniaco di quotidiani e oggetti pescati nelle discariche che si accumularono mostruosamente nella pur enorme casa, morirono quasi contemporaneamente poco più che sessantenni: il cieco di fame qualche giorno dopo il fratello, schiacciato a morte dal crollo di una catasta di oggetti proprio mentre stava portandogli da mangiare.
Di questa storia divenuta leggendaria lo scrittore ha preso il nocciolo - i protagonisti, il luogo, la «direzione esistenziale» - ma l’ha piantato in un terreno di ipotesi e variazioni narrative affascinanti. Non solo prolungando la vita dei fratelli fino agli Anni Sessanta, ma facendo della loro reclusione non tanto un fatto oggettivo (il progressivo auto-imprigionamento nelle mura domestiche), quanto spirituale, intellettuale, un «disagio della civiltà» che in Langley origina dalle sue esperienze di soldato nella prima guerra mondiale e in Homer, pianista cieco e voce narrante del racconto, da un’adesione totale, indulgente e amorosa, alle scelte del fratello.
Cosa l’ha spinta a lavorare sulla storia dei fratelli Collyer?
«Be’, è gente che ha una specie di statura mitica, qui a New York. Persone benestanti, ricche, membri della società che a un certo punto la rifiutano, la chiudono fuori. una storia che tutti ti raccontano con meraviglia, ma è una storia tutt’altro che eccezionale, in America».
Vuol dire che è una storia esemplare?
« una storia che si ripete, da noi. Ne trova esempi in ogni epoca. Sottrarsi al proprio mondo, mollare tutto... Prenda gli intellettuali, per esempio. C’è Thoreau che se ne va nei boschi, Kerouac e i beat che si buttano sulla strada, oppure Salinger, che si nasconde in provincia, taglia i ponti col mondo delle lettere, non vuol più parlare con nessuno...».
I fratelli Collyer non vanno da nessuna parte, però. Se la squagliano, per così dire, restando dove sono.
«Sì, è questa la cosa affascinante, di loro. Homer e Langley per tutta la vita non si allontanano mai dalla casa dove sono cresciuti, dal parco che le sta davanti, dall’isolato dove sorge. E invece di lasciarsi tutto dietro, come quelli che partono e dicono addio a ogni cosa, si portano tutto dentro. I detriti della civiltà che gli altri abbandonano, loro li accumulano all’interno della propria abitazione».
Ci vollero settimane per tirar fuori tutto quello che c’era stipato. Solo per trovare il corpo di Langley, sepolto sotto una catasta di libri e pacchi di giornali, i pompieri impiegarono sedici giorni...
«Migliaia di persone seguirono le operazioni di sgombero. Era come se la casa eruttasse memorie, come se a suo modo fosse un immenso catalogo, una sterminata cronaca... Era come se i fratelli, che non erano mai andati verso il mondo, l’avessero però lasciato venire verso di loro, ne fossero diventati una specie di registrazione. Così ho scritto il libro usandoli in un certo modo da catalizzatori. Loro sono fermi, ma la Storia si muove e va a trovarli».
Il libro è una collezione di episodi e incontri che illuminano, come flash, il costume americano dai tempi di Edith Wharton ai raduni pacifisti degli hippie, dall’età dell’innocenza all’età dell’ansia - i Collyer sempre spettatori perché dalla vita, appunto, si ritraggono. Ma il libro è anche, mi pare, una grande storia d’amore coniugale...
«Mi scusi?».
Una metafora dell’amore coniugale, voglio dire. La devozione di Homer per Langley è la devozione di una moglie all’antica, totale e totalmente fiduciosa.
«Be’, siccome Homer è cieco e dipende da Langley, sviluppa un’attitudine - come dire - filosofica sulla loro vita in comune. Langley è tornato dalla guerra a pezzi, nel corpo e nello spirito, è diventato amaro, cinico. Ecco perché concepisce l’idea di fare un giornale che possa essere letto ogni giorno per sempre, sempre nuovo e sempre identico, tanto nulla cambia nel mondo, tutto si ripete... Homer sospetta che Langley non creda davvero al suo progetto, ma intanto lo tiene occupato / e la vita quotidiana scorre. Se per lei questo è amore coniugale...».
Non sono solo giornali. Il caos cresce, la casa si degrada. Eppure Homer accetta tutto con tenerezza. Sembra la moglie del contadino in quel racconto di Andersen intitolato Il babbo ha sempre ragione, quello dove lui esce di casa per barattare un cavallo al mercato e torna con un sacco di mele marce e lei è contentissima lo stesso...
«Nessuno mi aveva mai paragonato a Hans Christian Andersen».
Le fa piacere?
«Dovrei leggerlo, a partire dal racconto che lei ha citato. Da piccolo conoscevo qualche sua storia, naturalmente, ma le ho dimenticate. Quanto al mio libro, che a lei sembra una metafora dell’amore coniugale...».
Non solo...
«... altri invece lo leggono come una parabola sul declino della civiltà, di una civiltà. Siccome il campo della narrazione si restringe sempre di più via via che ci si avvicina alla fine, e nelle ultime pagine Homer è ormai non solo cieco ma anche sordo, ridotto alla pura coscienza di sé sull’orlo del nulla, e Langley soccombe sotto tutto ciò che ha accumulato... Ecco, altri, non io, attribuiscono al romanzo questo significato, questo valore simbolico».
Ma lei non è d’accordo con loro?
«Io non posso essere d’accordo con nessuna interpretazione del mio libro. D’altra parte, purché non pretenda di essere esaustiva, o di rispecchiare le mie intenzioni, qualunque interpretazione mi va bene. E se lei pensa che io abbia dei punti in comune con Hans Christian Andersen, continui pure a pensarlo».