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 2010  giugno 16 Mercoledì calendario

I SOLVENTI CHIMICI USATI PER RIPULIRE LE PENNE DAL GREGGIO LI AVVELENANO E RENDONO STERILI

La fotografia scioccante la conosciamo bene: c’è il pellicano nero come la pece che cerca ostinatamente di lisciarsi le penne con il becco, sforzo disperato per sopravvivere a quella sorta di «asfissia» che lo sta condannando. E poi c’è l’immagine della speranza, i veterinari e gli animalisti che soccorrono gli esemplari contaminati che arrivano ancora vivi al Fort Jackson Bird Rehabilitation Center di Venice, in Louisiana: li spruzzano di sostanze chimiche, li sciacquano con shampoo gentile, li spazzolano.
L’uomo chiede scusa così alla natura, ma lo fa per pacificare la coscienza o perché ne vale davvero la pena? Ci sono 600 addetti, pagati dalla Bp, impegnati da giorni nell’operazione di salvataggio, complessa nella sua dinamica tecnica, e dal successo ancora non valutabile. I pellicani bruni sono una specie che soltanto un anno fa era stata tolta dall’elenco di quelle a rischio d’estinzione, dopo che i conservazionisti erano riusciti a salvarli dalla grave intossicazione da pesticidi di cui erano stati vittime negli Anni Sessanta. Le penne che ricoprono il loro corpo sono una perfetta corazza impermeabile: si sovrappongono delicatamente una sull’altra, e grazie a minuscoli peduncoli diventano un sigillo a prova d’acqua e di freddo.
Poiché la funzionalità della protezione dipende dalla flessibilità ed elasticità delle penne e della peluria sottostante, quando il petrolio le imbratta si irrigidiscono ed espongono l’uccello ai rigori esterni. Istintivamente portati a liberare le penne dalla sostanza killer, i pellicani non cercano neppure più il cibo, o si avvelenano inghiottendo il petrolio che cercano di rimuovere con il becco. Affamati, disidratati, al limite della resistenza, quando sono raccolti vengono affidati ognuno a una coppia di soccorritori. Uno tiene bloccato il becco del pellicano, che ha una apertura d’ali fino a 2,4 metri. L’altro fa pulizia accurata, usando una soluzione al metile per togliere il grosso, e poi un sapone speciale e una spazzola delicata per liberare ad una ad una le penne dalla crosta. Quarantacinque minuti dopo, se tutto è ok, l’uccello finisce in un recinto esterno dove resta una decina di giorni prima d’essere trasportato e liberato in Florida.
Ma che tutto sia davvero ok lo si saprà solo con la prossima stagione riproduttiva. Studi sui recuperi passati danno esiti divergenti. Il più negativo è quello sulla chiazza di greggio in California del 1990: due anni dopo meno del 10% dei pellicani recuperati furono rintracciati vivi, ma nessuno aveva più procreato. Le cifre ufficiali del disastro di oggi, che non tengono conto dei volatili affogati e spariti, parlano di 1282 esemplari tirati fuori dalla marea nera, di cui 725 già morti. Finora, secondo il Fish and Wildlife Service, una quarantina sono stati lavati e restituiti all’ambiente. Peggio è andata alle tartarughe marine: sulle 387 recuperate dall’acqua melmosa ben 324 erano morte e solo tre sono state finora rimesse in condizioni di vivere libere. E nessuno dei 42 delfini colpiti dalla marea nera è sopravvissuto.
Negli ultimi giorni c’è stata un’impennata di arrivi al Centro di Venice. «Siamo sotto stress», ha ammesso al Guardian Rebecca Dunne, manager della base di Fort Jackson. Diventa così ancor più drammatico l’interrogativo sul senso di questi sforzi, costosi e percentualmente poco rilevanti per i critici di questa sorta di «accanimento ambientalista». In qualche caso, esporre gli animali alle cure può persino essere fonte di guasti peggiori. Dopo il disastro della Exxon Valdez, le lontre marine furono salvate ma contrassero una forma di herpes dai contatti con cani locali, e poi diffusero la malattia quando furono rimesse in mare.