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 2010  giugno 16 Mercoledì calendario

LA TURCHIA GUARDA A EST TRA BOOM E CONTRADDIZIONI [+

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Un drappello di giovani uomini d’affa­ri invade rumorosamente l’ultimo piano dell’Hotel Richmond a Pera, da cui si gode una vista incomparabile del Cor­no d’Oro, del Mar di Marmara e del Bosforo, i confini d’acqua che delimitano la Istanbul europea permettendo di intravedere al di là della caligine del­la sera le mille lu­ci dell’Anatolia, l’immenso dorso continentale con cui la Turchia si spinge insolente nel cuore dell’A­sia, lasciando in quello spicchio di penisola che nei secoli si era data il nome di Bisanzio e poi di Costantinopoli ciò che a noi occidentali pia­ce pensare sia ancora la testa e l’anima del­la nazione turca. Non fosse che poche centinaia di metri più sotto, al di là del ponte di Galata, il profes­sor Kishore Mahubani s’incarica di spegnere ogni nostra illusione di fronte alla platea del World Trade Summit 2010: «Una nuova era della Storia è cominciata, il mondo occi­dentale è in declino, travolto da debiti pub­blici immani, dall’instabilità finanziaria, dal fallimento dell’euro e dalle politiche defla­zionistiche dell’America e del Giappone. L’Asia invece sta crescendo e la Turchia deve im­parare a guarda­re a Est, perché il suo potenziale futuro è lì».

I businessmen in grisaglia d’ordi­nanza che brin­dano ai loro lauti affari sembrereb­bero obbedire al­la profezia di Mahubani: «L’A­sia – dice – finirà con il dominare i mercati se adot­terà appieno i set­ti pilastri della saggezza occi­dentale: libera e­conomia di mer­cato, scienza e tecnologia, cultura della pa­ce, pragmatismo, meritocrazia, leggi e rego­le da osservare e sopra ogni cosa, istruzione diffusa».

Forse nel suo impeto profetico il professore ignora che sta declinando quella che ormai non è che la caricatura dell’Occidente e del­la sua ascesa storica. Certo è che la crisi in­ternazionale in Turchia non ha avuto gli ef­fetti devastanti che si sono visti in Europa e negli Stati Uniti, che qui all’ombra della Mo­schea Blu si brinda a una crescita costante e a una diffusa ricchezza (nel primo quadri­mestre del 2010 l’export turco è cresciuto dell’11% e le importazioni del 35%), e anche se forse non si intravedono ancora gli Adam Smith e i Max Weber dai tratti uralo-altaici ca­paci di dare un profilo epistemologico al fu­turo dell’Anatolia, la tentazione di voltare le spalle a quel vicino amato e odiato, ingom­brante ed ora anche malato qual è l’Europa risulta molto forte.

Sul tram gremito che attraversa Sultanah­med, il cuore archeologico di Istanbul, in­travedo almeno quattro persone che leggo­no con avidità Le quaranta porte, l’ultimo romanzo di Elif Shafak, ispirato alla biogra­fia di Jalal al Din Rumi, il grande poeta sufi del XIII secolo. un segno contrad­dittorio, ma insie­me eloquente di questa Turchia che – come dice il so­ciologo Burak Be­dil – «sta sospesa nel mezzo di ogni cosa»: nel 2006 la Shafak venne in­criminata per ”attacco all’identità turca” per aver parlato nel suo romanzo più famoso,

La bastarda di Istanbul , del genocidio ar­meno. Eppure, nella Turchia di Erdogan e del presidente Gül, del braccio di ferro fra i kemalisti arroccati nella difesa a oltranza del laicismo elevato a sistema dal padre della patria Kemal Atatürk e l’onnipresente isla­mismo che è l’anima della provincia profon­da, c’è posto anche per questa e altre in­congruenze.

Ma la domanda che rimbalza da un capo al­l’altro d’Europa, di quell’Europa che prima l’ha irretita e poi inesorabilmente delusa, è una sola: dove sta andando oggi la Turchia di Erdogan, che cosa vuole, e soprattutto con quali compagni intende proseguire il suo cammino? Con i radicali di Hamas, con la Si­ria del satrapo Bashir Assad, con l’Iran di Ah­madinejad ricevuto con tutti gli onori a Ankara? Con la Nato, con i vecchi partner oc­cidentali?

«La dottrina di Erdogan, o meglio ancora del suo ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu – dice Soli Ozel, docente di Relazioni inter­nazionali alla Bilgi University di Istanbul – si racchiude in una for­mula semplicissima: ”nessun problema con i Paesi confinanti”. La Turchia sta crescendo e la sua aspirazione al ruolo di potenza regio­nale è più che legitti­ma. Il che forse dispia­cerà agli alleati ameri­cani e un po’ anche a­gli europei, ma in que­sto Erdogan non è di­verso da Atatürk: l’or­goglio nazionale in questo momento è al­le stelle». Anche a co­sto di fare a pugni con il bon ton internazio­nale. O, come nota Bekdil, «con il rischio che i migliori amici della Turchia finiscano con l’essere nazioni dispotiche con cui nessuno vorrebbe davvero avere a che fare».

Ma del bon ton l’instancabile Davutoglu per ora sembra non occuparsi. Il suo disegno geopolitico va ben oltre il progetto di una potenza regionale capace di dialogare alla pari con l’Europa e la Russia forte del proprio ruolo di primus inter pares in un’area che va dal Mar Caspio fino ai deserti arabici. Nell’a­ria volteggia un acronimo di tre lettere, MEU, che sta per Middle East Union, trasparente ricalco dell’Unione europea, un progetto che punta all’integrazione economica tra Tur­chia, Siria, Libano e Giordania quali Stati membri fondatori, per estendersi gradual­mente fino al Marocco, al Sudan, alla Mau­ritania, dal Bosforo al Golfo di Aden.

Vi ricorda niente? Ma sì, avete indovinato, questi sono grosso modo i confini del mai dimenticato impero ottomano, ma guai a dirlo ad alta voce: nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, dell’islamismo moderato, del grande partito confessionale vincitore delle elezioni del 2003 che guarda alla mo­dernità senza dimenticare la tradizione, il termine neo-Ottomanism è un tabù quasi come il genocidio armeno o il parlar male del padre della patria.

«Semmai si tratta di una mutazione geneti­ca – afferma Mehmet Alì Birand, il più noto
anchorman turco – legata alla grande cre­scita economica. Un’e­mancipazione a tutti gli ef­fetti, che paradossalmente la crisi economica mon­diale ha accelerato». Il Mu­siad, l’unione musulmana degli industriali e degli im­prenditori indipendenti, ha scoperto nel Medio O­riente il proprio Eldorado. «Si fanno affari con l’Af­ghanistan. Sì, ha capito be­ne, l’Afghanistan, con l’I­raq curdo, con Teheran (dieci miliardi di dollari il volume degli scambi, ndr ), e sono buoni affari, ma an­che con la Grecia, a cui vendiamo perfino le armi», ammettono sottovoce alla Camera di Commercio di Istanbul. C’è stato in effetti uno spostamento di equilibri nella mappa del potere economico del Paese. Non più so­lo l’élite laica kemalista, arroccata nelle gran­di città, Istanbul, Ankara, Smirne, ma ora an­che quella musulmana, sparpagliata nel­l’immensa Anatolia e fortissima nelle città di confine, come Adana, Antiochia, Diyar­bakir.

Nel cuore di questo miracolo economico, do­ve trovano posto progetti faraonici come le due Trump Tower, il terzo ponte fra la parte europea e quella asiatica e una metropolita­na nuova fiammante e dove nonostante il gelo degli ultimi mesi l’interscambio com­merciale con Israele è più che raddoppiato, scorre impetuoso anche quel fiume sotter­raneo destinato a trasportare petrolio e gas naturale dall’Asia all’Europa affamata di e­nergia e che costituirà la polizza del futuro turco. C’è chi immagina che un domani la Turchia, divenuta potente e rispettata in tutta la regione, lanci un ultimatum all’Eu­ropa: o ci fate entrare subi­to, oppure guarderemo davvero a Est. Con buona pace delle alleanze di un tempo. E c’è chi invece sogna che dallo scontro frontale fra i conservatori laici i moder­nizzatori religiosi esca dav­vero una Turchia nuova, non troppo europea e nep­pure troppo asiatica, ma semplicemente turca, anzi, ottomana.

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CATTOLICI, MINORANZA FRA LE MINORANZE -
Una storia di sofferenza ma anche di irriducibile speranza. Non c’è stato solo l’assassinio di monsignor Luigi Padovese a sconvolgere la vita dei cattolici in Turchia. Il 5 febbraio 2006 era stato ucciso don Andrea Santoro, freddato nella Chiesa di Santa Maria a Trebisonda. Sono poi da ricordare i tre presbiteriani di Malatya, sgozzati dopo essere stati torturati per ore nella sede della casa editrice in cui stavano stampando copie della Bibbia. I cattolici in Turchia rappresentano un’esigua parte della popolazione, appena lo 0,05% del totale, pari a circa 35mila persone. Si collocano fra gli armeni, sulle 70mila unità, e gli ortodossi, ridotti a poco più di 3.000. Gli ebrei sono intorno a 20mila. Il 95% della popolazione turca è musulmana. La religione di Stato è l’Islam sunnita, anche se vi sono non meno di 12 milioni di aleviti, di ispirazione sciita. I cattolici, che si concentrano soprattutto a Istanbul, a Smirne e nell’Est del Paese, con sacche sul Mar Nero, possono essere considerati una minoranza nella minoranza. Non solo come tutte le altre confessioni non hanno riconoscimento giuridico, ma non rientrano nemmeno nelle minoranze religiose non musulmane previste dal Trattato di Losanna, che fu firmato nel 1923 e con il quale la Turchia si impegnava garantire a tutti i suoi abitanti, indipendentemente dalla loro provenienza e dalla loro fede, uguaglianza e libertà. Nel testo del Trattato furono considerate minoranze non musulmane le comunità armene, bulgare, ortodosse ed ebraiche, più o meno le stesse presenti nell’epoca ottomana.

Marta Ottaviani