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 2010  giugno 15 Martedì calendario

LA FABBRICA SENZA QUALITA’

La chiamavano «revisione finale». Routine, in apparenza. L’ esatto opposto nella realtà. Non c’ era fabbrica al mondo che, completati i normali controlli di qualità, dovesse ricominciare daccapo, passare da una nuova linea ad hoc. Rivedere ogni singola auto per controllare che non fosse stato lasciato un panino nel motore, una chiave inglese tra finestrini e portiera, una doppia strisciata di cacciavite su un’ intera fiancata. Anche per questo le Alfa Romeo di Pomigliano (dalla chiusura di Arese unico sinonimo produttivo del marchio) costavano più delle concorrenti. E però almeno questo, oggi, non esiste più. L’ ultima «revisione finale» è andata in archivio - e non nel comparto glorioso delle storiche Alfasud: in quello delle terrificanti Arna, quando il Biscione era ancora pubblico e lo Stato, per dar lavoro al Mezzogiorno, tentò un altro stabilimento e la fallimentare alleanza con Nissan - all’ inizio del 2008. Pensionamento decretato da Sergio Marchionne e dal sindacato insieme. Disse - anche allora e anche se per ragioni in parte diverse - il numero uno Fiat: così non possiamo continuare, così Pomigliano non ha futuro. Risposero - allora e in vertenze dure ma non così bibliche - i rappresentanti dei metalmeccanici: ok, trattiamo, isoliamo i pochi che mettono a rischio i tanti, collaboriamo per rilanciare Pomigliano. Funzionò. Il Lingotto ci mise 120 milioni. La fabbrica chiuse per tre mesi. Gli impianti vennero ristrutturati, i dipendenti finirono in cassa integrazione, la Cig venne usata per corsi di formazione. Alla fine, marzo 2008, rientro in uno stabilimento nuovo anche nel nome: e non fu ovviamente scelto a caso, da Marchionne, quello del filosofo Giambattista Vico. Dava l’ idea piena del miglior orgoglio e della migliore tradizione campani. E orgoglio fu quello che anche le tute blu, stufe delle continue associazioni della loro terra solo a storie di camorra, ritrovarono. Primo effetto: via, appunto, la «revisione finale». Le «loro» Alfa non hanno più bisogno dell’ esame di riparazione. E si chiamano 147, 159, Gt. Il range completo per i sogni degli alfisti di ogni tasca. Le buone notizie finiscono però lì. Quell’ estate, dall’ America, divampa sul mondo la prima Grande Crisi. finanziaria. Ma contagia l’ economia reale, l’ industria, l’ occupazione, i consumi. L’ auto è sempre la prima a veder schizzare la febbre. E se, negli Usa e in Europa, con il crollo delle vendite tutti i costruttori e tutte (quasi) le fabbriche scoprono d’ improvviso il male strutturale dell’ eccesso di capacità produttiva, per Pomigliano il conto è più salato che per altri. Il vanto degli operai campani - le Alfa, il top di gamma, non le «proletarie» Punto o Panda - diventa di colpo il tallone d’ Achille. Il lato debole che, a catena, scoperchierà tutti gli altri. Non è colpa delle tute blu, sia chiaro. Loro le macchine ora le fanno comme il faut (e se qualche modello non va come ci si aspetterebbe, se l’ Alfa alla Fiat costa anziché rendere, è Marchionne il primo a dire che le responsabilità stanno su, ai vertici, dunque in definitiva anche a lui). che girano meno soldi. Che la gente adesso ci pensa sei volte prima di cambiare auto ogni due anni. E sì, è vero: per contrastare la crisi i costruttori chiedono e i governi concedono i necessari, inevitabili incentivi. Che drogheranno pure il mercato. Ma per un po’ funzionano. Solo, non per Pomigliano. Sono «eco-aiuti», ovunque, e quindi vanno ai motori verdi, alle piccole cilindrate, alle auto «proletarie». Possono dirsi tali una 159, un coupé Gt, persino una 147 che non sia proprio quella basic? Ovvio, no. Lì la domanda crolla e basta. E quando l’ Alfa lancia la piccola Mito, la politica aziendale ha ormai diviso gli impianti non più per marchi: per «fascia». Il modello va a Mirafiori. L’ alto di gamma, da vanto, si trasforma per i campani in dramma. Non si producono più di 40-50 mila vetture. Molti manager Alfa finiscono sotto osservazione. Ma tutti i dipendenti di Pomigliano finiscono in cassa integrazione. Nel 2008-2009 lavorano in media 3-5 giorni al mese. Idem ora, 2010, a Cig ordinaria esaurita: siamo ormai in «straordinaria». Si dirà (si dice): ok, però devono pagare sempre i più deboli, le tute blu, gli impiegati? qui che Pomigliano diventa - o potrebbe - il possibile nuovo paradigma virtuoso. La crisi globale ha stretto il nodo che rischia di soffocare a morte l’ industria dell’ auto. I costruttori - tutti - a lungo si erano cullati nel sogno di un mercato che non potesse far altro se non salire. Si è scoperto che così non è e non sarà, che ci vorranno almeno dieci anni solo per recuperare quanto perso appena negli ultimi 24 mesi. Che le fabbriche, a questo punto, sono troppe. E per farle lavorare tutte si utilizzano gli impianti, quando va bene, al 60-65% della loro capacità. Con i costi fissi diventa insostenibile, diventa un suicidio. Anche perché il mondo non è più tutto uguale. Globalizzazione significa concorrenza spietata tra Paesi, sistemi produttivi e, sì, pure tra lavoratori. Con chi può prendersela l’ Italia se, nel caso Fiat, un solo impianto in Polonia o in Brasile produce quanto cinque dei nostri? questione di modelli produttivi. Quelli nazionali, nati decenni prima e sparsi sul territorio anche per sacrosante esigenze sociali (Pomigliano, Melfi, Termini, Cassino nacquero così) pagano la loro «datatura storica». Non possono più competere, nemmeno dopo la chiusura di Termini, se non ristrutturati a fondo. La scommessa di Pomigliano va dunque letta anche così. una delocalizzazione al contrario - dalla Polonia all’ Italia - che nessun altro fa e che in una logica puramente industriale non avrebbe senso: i «costi Paese» (lavoro compreso) fanno sì che una Panda prodotta qui costi - appunto - 500-600 euro in più rispetto a Tychy. Tanto e tanto più per una macchina dai prezzi ultrapopolari. Che però è l’ unica, perché la più venduta, a poter mantenere tutti i 5.200 posti di Pomigliano. Marchionne non lo fa perché è un buon samaritano: la «responsabilità sociale» la coniuga - è il suo mestiere - con bilanci che, senza utili, farebbero saltare non uno stabilimento ma un’ intera azienda. La richiesta ai campani però è: basta con i 1.500-1.700 permessi elettorali a ogni tornata, basta con le centinaia di certificati malattia proprio nei giorni di sciopero, se si firma un accordo lo si rispetta, per produrre 270 mila Panda la fabbrica «va fatta funzionare come un orologio svizzero». A Napoli? Sì. A Napoli. La sfida non è lanciata a caso: punta all’ orgoglio operaio di Pomigliano. Che può battere pure i cronografi elvetici. E non taroccati.
Raffaella Polato