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 2010  giugno 15 Martedì calendario

LA RINCORSA DELL’ASIA OPERAIA

Qualche giorno fa i sindacati del comparto tessile hanno proclamato tre giorni di sciopero. Chiedevano salari più alti del 40% e una legge che tuteli il diritto dei lavoratori a far sentire la propria voce, ad essere rappresentati da organizzazioni libere dall’ingerenza governativa. Un copione già sentito, in queste ultime settimane, fra le proteste allo stabilimento Honda del Zhongshan, i sit-in alla Merry Electronics di Shenzhen e i suicidi alla Foxconn. Con un’unica differenza: questa volta non siamo in Cina. Bensì in Cambogia.
Ecco qui un piccolo, significativo esempio, di quale effetto contagio rischia di scatenare la polveriera cinese. I governi del Sud-Est asiatico lo sanno, ed è infatti anche per questo che stanno cercando di correre ai ripari. All’inizio dell’anno, ad esempio, il governo del Vietnam ha stabilito un aumento dell’8,6%dei salari minimi limitato alle aziende straniere che operano nelle aree più arretrate del paese. A maggio il Pakistan ha portato gli stipendi di base da 6mila a 7mila rupie al mese, mentre dal 1? febbraio l’esecutivo di Delhi ha imposto alle aziende della municipalità un incremento del 33%. La via degli aumenti salariali, del resto, è la stessa cura intrapresa tanto dalle aziende straniere in Cina quanto dal governo di Pechino: da gennaio, ricordano le autorità di Shenzhen, 20 fra province e città hanno aumentato i salari minimi.
Che cosa sta succedendo dunque nel resto del Sud-Est asiatico? Da un lato, è logico che i governi temano un effetto contagio delle rivendicazioni dei lavoratori cinesi e tentino di buttare acqua sul fuoco. Dall’altro lato però, proprio i rialzi salariali cinesi – balzi, non dimentichiamocelo, tra il 30 e il 60%, impensabili per un paese come il nostro- potrebbero essere la loro grande occasione. Secondo le previsioni dell’Economist Intelligence Unit, gli stipendi medi cinesi oggi si aggirano sui 390 dollari al mese e in soli cinque anni raddoppieranno. In Thailandia già oggi sono di 100 euro in meno e promettono di non superare quota 400 dollari nemmeno nel 2014. In Vietnam, poi, la paga media non arriva a 100 dollari al mese.
Qualcuno già ipotizza che le aziende straniere preferiranno andare ancora di più a produrre negli altri paesi dell’Asia, e che anche la Cina delocalizzerà presso i vicini. Pechino dunque starebbe perdendo competitività? No, è la risposta degli esperti. Perché i salari non sono tutto, è la produttività che conta. E quella cinese resta alta, altissima: la più competitiva di tutto il continente asiatico.
Lo spiega molto chiaramente l’ultimo studio sull’area Asean dell’Organizzazione internazionale del lavoro(Oil): tra il 2001 e il 2007 la produttività in Cina è cresciuta dell’11,1%,il tasso più alto di tutta l’Asia emergente. In India è aumentata del 5,4, in Indonesia del 4 e in Thailandia del 3,5 per cento. Tra il 2007 e il 2009, poi, la produttività cinese è aumentata dell’8,7% nonostante la crisi, mentre quella dei paesi Asean si è contratta dello 0,3%. «Produttività vuol dire infrastrutture, logistica, agevolazioni fiscali, stabilità politica, presenza di una domanda interna e anche qualità della forza lavoro – spiega Kee Beom Kim, economista dell’ufficio asiatico dell’Oil – per tutte queste ragioni anche in futuro la Cina rimarrà il vero avversario da battere ». E, se anche gli stipendi aumentano, «la produttività cinese aumenta molto di più dei salari – aggiunge Patrick Belser, autore del Global Wage Report 2010 dell’Oil ”Il che lascia un ulteriore margine di contrattazione senza effetti sostanziali sul costo finale del prodotto».
Le proteste, a Shenzhen e dintorni, seppur in sordina, erano cominciate già dalla fine dell’anno scorso. Che sarebbero aumentate, lo si intuiva. Eppure, gli investimenti esteri diretti in Cina hanno fatto registrare a maggio il decimo aumento con-secutivo, con Pepsi che ha recentemente annunciato di voler spendere 2,5 miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Merito anche della domanda interna: sempre a maggio, le vendite di beni di consumo sono aumentate del 18%, e salari più corposi non potranno che accrescerle ulteriormente. Anche i vertici di Foxconn hanno smentito i timori della stampa, che li davano in fuga dalla Cina e in ripiegamento verso il più economico Vietnam. «Posso confermarlo – aggiunge Stefano Colli-Lanzi, amministratore delegato dell’agenzia per il lavoro interinale Gi Group ”. La società taiwanese è in trattativa con noi perché vogliono spostarsi, sempre in Cina, nello Zheijiang, dove ci sono notevoli risparmi contributivi e logistici rispetto allo Zhongshan». Le antenne di Gi Group in ogni caso non hanno ancora registrato la preoccupazione degli investitori stranieri per l’aumento del costo del lavoro: «Alle imprese lo dico sempre – aggiunge – la cosa interessante è produrre in Cina per il mercato cinese. Aumenti salari di questo genere non devono spaventare ».
Per recuperare competitività su Pechino, al resto dell’Asia non serve dunque puntare solo sui salari, bensì lavorare sugli altri pilastri della produttività. Come il sostegno della domanda interna, per esempio. Ma anche la preparazione della forza lavoro. Qualche governo del Sud-Est asiatico lo ha capito, e sta correndo ai ripari. Dei 7,6 miliardi di dollari di investimenti pubblici nella finanziaria dell’Indonesia di quest’anno, una parte va a un piano per la riqualificazione della manodopera operaia: formazione ai disoccupati e sostegno economico ai centri che la erogano. L’aggiornamento professionale è anche nel pacchetto annunciato a marzo dal governo della Malaysia per trasformare il paese in un’economia sviluppata entro il 2020.E persino l’arretrato Laos punta sull’istruzione tecnica e sul training on the job: senza i quali, si legge nel piano strategico al 2015, attirare investimenti esteri potrebbe rivelarsi assai difficile.