Paolo Simoncelli, Avvenire 15/6/2010, 15 giugno 2010
PADOVA RIABILITI IL RETTORE «FASCISTA»
Attesi da tanto tempo, i Diari e altri scritti di Carlo Anti, grande rettore dell’Università di Padova negli anni del fascismo, giungono finalmente a pubblicazione per la cura di Girolamo Zampieri e l’edizione dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona (2 volumi, pp. 1664, s.i.p.). La moglie di Anti volle depositarli nel 1976 (15 anni dopo la morte del marito) sintomaticamente non all’Università ma al Museo Civico di Padova, con vincolo trentennale. Ora dunque sono leggibili e si capisce meglio il rifiuto, la distanza dall’ambiente accademico evidenziata dal deposito archivistico fuori dalle mura universitarie. I testi contengono infatti testimonianze e documenti degli anni 1943-48, del periodo dunque del fascismo repubblicano e della ricostruzione, che sono documenti roventi di accusa contro un’intera classe intellettuale corsa a gestire livorosamente l’epurazione del «collega» prima che fosse il «collega» a gestirla. Grandi nomi della cultura italiana vengono coinvolti nelle vendette e nelle meschinerie che nulla, o almeno assai poco, hanno a che fare con la pulizia ideologica. Carlo Anti venne nominato rettore dell’Ateneo di Padova nel 1932.
Nato a Villafranca nel 1889, di tradizione culturale nazionalista e profondamente cattolica, ex combattente nella Grande Guerra, era professore di Archeologia, iniziatore degli scavi di Cirene in Libia e Tebtynis in Egitto. Nel decennio di insegnamento precedente la sua nomina al rettorato non aveva affatto dato vita alle plateali manifestazioni di fascismo cui indulgevano invece colleghi poi schieratisi opportunisticamente dall’altra parte della barricata; piuttosto Anti si era segnalato per il sostegno alle chiamate in facoltà di professori notoriamente antifascisti come Roberto Cessi e Manara Valgimigli; da rettore avrebbe continuato a difendere l’autonomia universitaria dalle malsane correnti d’aria della politica; al momento dell’espulsione dei docenti ebrei esperì ogni tentativo che, a norma di legge, potesse eccezionalmente tenerli ancora in servizio, mentre si profilava l’odiosa corsa alla loro successione che vide schierati nomi altrettanto illustri della cultura italiana che o approfittarono della circostanza (in quel triste valzer di cattedre è noto che Bobbio poté così raggiungere Padova nel 1940), o raccomandavano i propri allievi vantandone le benemerenze ariane (Angelo Ventura fin dal 1992 ricordò tra questi mallevadori Enrico Fermi). Il dramma del settembre 1943 si abbatté sull’Università di Padova e personalmente su Anti, che già prima della crisi non aveva avuto rinnovato il mandato rettorale. Il ministro dell’Educazione nazionale della Rsi, Carlo Alberto Biggini, lo invitò ad assumere la Direzione generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero. Anti accettò.
Non certo per adesione ideologica o tantomeno per fanatismo politico, ma perché – pur nella consapevolezza di andare incontro al proprio suicidio politico – riteneva che i beni culturali, a maggior ragione in quei frangenti drammatici, andassero urgentemente tutelati (come servizio non a un regime, ma alla salvaguardia d’una tradizione storico-artistica unica). E fu la sua rovina. Mentre si adoperava per mettere al riparo le opere d’arte dai massicci bombardamenti alleati e contemporaneamente stornarle dalle pretese tedesche di requisizione, il suo nome e quello di sua moglie venivano ripetutamente fatti da Radio Londra come quelli di criminali fascisti. Le voci a Padova ne indicavano gli informatori: colleghi. Era in buona compagnia: Gentile veniva assassinato a Firenze, «inizio del massacro dell’intelligenza italiana», commenta Anti. Da Roma, dopo l’ingresso delle truppe alleate, giungono le prime notizie di epurazioni («esecuzioni», le definisce un collega di Anti); appaiono incredibili: colleghi che denunciano colleghi, nessuno dei quali con la coscienza politica specchiata, quindi dediti tutti a ricrearsi una verginità morale! E con la Liberazione tocca anche a lui. Messo sotto accusa, sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio, processato. Più delle solite imputazioni, è impressionante la documentazione a difesa: a togliere l’incarico dell’insegnamento di Psicologia a Cesare Musatti, già prima delle leggi razziali, era stato ben altro collega (fra l’altro anche lui ebreo) della facoltà di Giurisprudenza; altri docenti si muovono contro l’ex rettore che sospetta manovre congiunte con logge massoniche. Anti ricorda quanto e come difese tutti, ebrei e antifascisti (torna a spiccare per la sua drammaticità la vicenda di Tullio Terni, espulso nel ”38 perché ebreo e nel ”46 perché fascista; suicida nel primo anniversario della liberazione). Si rinfacciano cattedre e chiamate nelle varie facoltà; da Roma sopraggiungono ulteriori notizie sull’epurazione ai Lincei: il grande inquisitore (l’ex fascista Rizzo, archeologo) epura Anti ed altri colleghi, rei di averne accertato le cantonate archeologiche. Giunge una prima assoluzione, ma dei colleghi (Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, Ranuccio Bianchi Bandinelli) protestano sulla stampa e presso il governo; anche gli amici e gli allievi lo abbandonano. Sono mesi più lividi di quelli trascorsi sotto le bombe e coi tedeschi in casa. L’attesa della sentenza definitiva del Consiglio di Stato sul suo reinserimento nei ruoli universitari è spasmodica: Anti la vive a Roma continuando a frequentare gli ambienti colti dell’archeologia vaticana (Bartolomeo Nogara), i concerti (di cui era grande intenditore), ma non più i vecchi «amici». Infine giunge la buona notizia: è reintegrato; a Padova, superate ulteriori tensioni, riprende l’attività accademica spegnendosi nel 1961; sopravvissuto a uno sconvolgimento epocale di tradizioni e valori culturali prima ancora che politici.