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 2010  giugno 15 Martedì calendario

DAGLI EXTRAPALARMENTARI A D’ALEMA, E L’INNO FIN IN SOFFITTA

Ammettiamolo, non è che l’Inno di Mameli abbia sempre avuto tutti i difensori di queste ore, anzi. stato sopportato, vissuto come uno stanco rituale, a volte apertamente osteggiato, talora irriso. Anche a sinistra.
All’ultimo congresso del Pci - marzo 1989, segretario Occhetto, presidente della Camera Nilde Iotti - per disattenzione stava per essere cancellata la norma che prescriveva di aprire ogni congresso con l’Inno, e solo dopo l’Internazionale e Bandiera rossa. E sapete chi salvò Mameli? Un dirigente dimenticato: «Su richiesta del critico musicale Luigi Pestalozza, è stata poi mantenuta nello statuto la vecchia norma (assente nella proposta fatta dalla commissione) che prescrive l’Inno di Mameli, l’Internazionale, l’Inno del lavoro e Bandiera rossa per le manifestazioni ufficiali del Pci».
«La verità è che l’Inno a sinistra, anche nel Pci, non appassionava nessuno», ricorda Goffredo Fofi. «Noi dei gruppi extraparlamentari ci sentivamo una retorica patriottarda, era usato nei film militareschi e parafascisti del dopoguerra... Cantavamo altro». Nel ”71 alcuni militanti gli chiesero se poteva aiutarli a riscrivere le parole dell’Internazionale di Franco Fortini. Come andò a finire l’ha narrato Cesare Bermani in Non più servi, non più signori: Fofi girò «su un foglietto rosa» il testo di Fortini a Luigi Manconi. Manconi lo riscrisse da capo, con gli slogan di Lotta continua. Oggi dice: «Non ricordo discussioni particolari su Fratelli d’Italia». Certo quella generazione, in piazza, non ci pensava minimamente a cantare Mameli. Le eccezioni erano poche. Luigi Pintor, per esempio, annotò nella Signora Kirchgessner: «Goffredo Mameli ha scritto un inno che dura da centocinquant’anni e non è poco. Aveva un viso triste e una grande barba, per sua fortuna non ha avuto biografi». Ma fischiatori sì. Valentino Parlato ora dice: «La verità è che gli inni sono tutti brutti, e parlarne nasconde i veri problemi dell’Italia. Noi del manifesto abbiamo sempre preferito Bella Ciao. Oggi se proprio devo scegliere preferisco Zaia a La Russa».
Fu Carlo Azeglio Ciampi, dal capodanno del duemila in poi, a iniziare una vera campagna per Riscoprire la patria (come racconta nel suo libro omonimo Paolo Peluffo). L’allora presidente rimase male quando, il 7 dicembre ”99, Muti evitò - per «problemi tecnici», dirà - di suonare Mameli alla Scala. Così convinse Giuseppe Sinopoli a eseguire l’Inno alla fine del concerto di capodanno, dopo la Nona di Beethoven, l’1 gennaio del duemila. Fu un’apoteosi. Il Colle aveva commissionato due sondaggi riservati dai quali veniva fuori questo: l’80 per cento degli italiani apprezzava l’Inno; e nessuno accettava l’idea di sostituirlo. Musica odiata dagli snob, ma il popolo l’amava.
Uno studioso del movimento operaio come Marco Revelli conferma: «Se ce l’avessero chiesto a scuola, Mameli non l’avremmo cantato. In piazza lo contestavamo da sinistra in nome dell’internazionalismo. Non sapevamo neanche che era stato un eroe, e pure radicale, della repubblica romana...». Tuttavia anche la sinistra ortodossa non è che si «stringesse a coorte». Nel febbraio del ”97 Massimo D’Alema - caldeggiando ”Un canto”, la nuova composizione regalata da Ennio Morricone al congresso del Pds - disse che l’antica norma nello statuto del Pci sull’Inno era solo «un’indicazione, un consiglio. Poi anche questo è caduto. Oggi diciamo che c’è maggiore libertà di esecuzione di musiche». Insomma, una canzone valeva l’altra. Il Pd di Veltroni suonerà invece Mameli alla fine di tutte le 110 tappe della campagna elettorale 2008. Ma all’epoca dei mondiali del 2002 L’Unità diretta da Furio Colombo scriveva nelle pagine culturali applaudendo i calciatori che omettevano di cantarlo. E nel correntone c’era chi (Gloria Buffo) sbuffava contro Mameli «usato come una clava».
Gli intellettuali storcevano il naso. Nel ”90 Va’, pensiero venne suggerito al posto di Mameli dal socialista Craxi, ma anche dal musicista radical Luciano Berio, dal filosofo Emanuele Severino, dallo scrittore Rigoni Stern, o dal sindacalista riformista Sergio Cofferati. Alcuni invece berciavano. Ancora nel 2003 i verdi (con Paolo Cento) e Rifondazione (con Luisa Morgantini) sono andati al Quirinale a fischiare l’Inno con la scusa di una manifestazione contro la guerra.
Non ci si può adesso lamentare solo della Lega. Giulio Andreotti raccontò che dopo il referendum sulla repubblica occorreva formalizzare l’Inno come «inno nazionale». Non se ne fece nulla. Il divo Giulio nel 2002 confesserà: «Io lo sopprimerei immediatamente, l’Inno. Quell’’elmo di Scipio”, quel ”s’è cinta la testa”. Retorica insopportabile. Meglio il Nabucco». Non si sa chi l’aveva tolto dalla Carta, ma nella seduta più lunga della storia parlamentare - quella del 18 marzo ”49 per l’adesione alla Nato - alla fine volarono insulti. Gli stenografi annotarono: «All’Internazionale intonata dai banchi comunisti si contrappone l’Inno di Mameli». Come se fossero musiche di partito. Da questo veniamo. Fazioni. Bossi è arrivato molto, molto dopo tutto questo.