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 2010  giugno 15 Martedì calendario

LA CINA SENZA REGOLE CI SBARAGLIA

Nel suo modo colorito, il presidente della Banca Popolare di Milano Massimo Ponzellini l’aveva auspicato, pochi giorni fa: «Basta pugnette, difendiamoci». E di fatti un primo colpo, contro l’offensiva indiscriminata e spregiudicata della Cina produttrice l’Azienda Italia l’ha battuto, con Coldiretti, Unci e Aiipa che hanno firmato un protocollo d’intesa per chiedere all’Unione europea la protezione del pomodoro made in Italy dall’invasione del «concentrato» cinese, il più delle volte spacciato come italiano. Ottantadue milioni di chili solo nel 2009, solo in Italia. Arrivati dalla Cina, venduti come italiani. «Ora basta», chiedono formalmente gli agricoltori all’Europa. Un piccolo gesto, ma sintomatico di un vento nuovo che inizia a spirare contro lo strapotere dell’export di Pechino.
Di che si tratta? Un episodio isolato di ribellione o il segnale di una nuova consapevolezza? Più un fenomeno strutturale che un episodio isolato: «Altro che, è in atto una guerra, una congiura contro l’Europa e l’Italia da parte dei paesi emergenti, Cina su tutti, complici le grandi istituzioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale», ha detto Ponzellini davanti alla platea della Federlegno-Arredo, strappando applausi spellamani, «Fmi e Banca mondiale sono il vero fuoco amico. Raccolgono quattrini e li danno in prestito ai Paesi emergenti senza regole. Smettiamola di firmare accordi internazionali e diamo le munizioni, cioè i soldi, alle nostre imprese. Difendiamoci. Le truppe le abbiamo, cioè le imprese. Però le truppe hanno bisogno di logistica e quella la deve fare il Paese. Le banche danno le munizioni a chi sa sparare meglio. Poi c’è l’addestramento delle truppe che spetta al quartier generale. Non sempre all’altezza». Quel che sta cambiando, in realtà, è il quadro dell’economia globalizzata dove gli Stati Uniti si dimostrano ogni giorno di più come un gigante dai piedi d’argilla che ha scelto di allearsi con l’Asia e di immolare l’Europa. «Ma noi europei non dobbiamo immolarci sulla Grande Muraglia», dice Marco Fortis, docente alla Cattolica di Milano e vicepresidente della Fondazione Edison, oltre che consulente del governo per i temi del commercio internazionale. «Certo che i paesi emergenti sono indubbiamente un’opportunità, ma i conti non tornano. Per il nostro export la Cina vale la metà della Svizzera. E per ora l’Europa ci ha dato a malapena il dazio anti-dumping sulle calzature. Un po’ poco». La ribellione italica contro il pomodoro giallo è un primo fuoco. Nell’ultimo trimestrte la crescita di importazioni di pomodori dalla Cina è stata del 174%, con una riduzione dei prezzi tra il 15 e il 30%, che ha mandato al tappeto i produttori italiani. E la qualità della merce è scadente. Ma come i coltivatori ialiani si sono mossi, anche in altri paesi d’Europa monta la protesta per un «social dumping» cinese che appare ormai a tutti inammissibile. come se le imprese europee stessero maturando e cambiando atteggiamento, rispetto al loro approccio originario verso la Cina: mercato di sbocco senz’altro, mercato per investirvi e produrvi direttamente, come ha appena iniziato a fare, per esempio, la Piaggio; ma con imprese e stabilimenti propri, che vendano innanzitutto ai cinesi, ai mercati asiatici e solo in ultima istanza all’Occidente; ma non più pura sede di triangolazioni produttive a finalità di economia di scala. Anche perchè... Anche perchè le economie di scala cinesi potrebbero, finalmente, ridimensionarsi. Come ha più volte sottolineato Italia Oggi, e autorevolmente analizzava ieri l’economista Mario Deaglio su La Stampa, le agitazioni operaie a Shangai, a Canton, Guangshou e in vari altri centri industriali cinesi, le rivendicazioni salariali e sindacali per una vita meno schiavizzata stanno facendo (finalmente) lievitare i costi di produzione anche in Cina, stringendo per la prima volta dopo vent’anni la forbice clamorosamente divaricata della convenienza economica di quelle produzioni rispetto ai costi occidentali. chiaro che un aumento dei costi produttivi cinesi spiazzerebbe in molti casi i committenti occidentali, che non troverebbero alternative e si vedrebbero costretti ad accettare i rincari e spalmarli sui prezzi al consumo dei prodotti, così scatenando un’ondata inflattiva che al macroeconomista non può che far paura; ma è pur vero che un riequilibrio dei fattori di costi e di reddito tra Ovest ed Oriente è pur sempre un fenomeno fisiologico, un «portato» sano della globalizzazione. Sembra conseguirne, insomma, un paradosso: che gli occidentali, o almeno gli europei, iniziano a ribellarsi allo strapotere del «low-cost» cinese alla vigilia di una fase in cui spontaneamente questo «low cost» diventerà «medium-cost»... Comunque, un radicale cambio di scenario.