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 2010  giugno 15 Martedì calendario

CAVOUR AGRICOLTORE


«Bisogna averlo visto all’opera: in piedi all’alba, esaminava le stalle, assisteva alla partenza degli operai, e ne sorvegliava i lavori in piena canicola, sotto il solleone; non contento d’impartire direttive generiche, s’occupava dei minimi particolari; attento a tutte le nuove scoperte chimiche, alle invenzioni della meccanica, moltiplicava le esperienze, prevedendone i risultati con un buon senso quasi infallibile; ne abbandonava alcune, ne ripeteva altre su scala vastissima e con un’audacia che spaventava i buoni vicini che con un brivido di paura venivano a chiedergli consiglio. Sempre sorridente, allegro, affabile aveva per ognuno un parere chiaro, preciso, e un incoraggiamento celato in uno scherzo. In nessun altro posto, penso, Cavour si sentiva a casa propria come a Leri; là ritornava stanco o disgustato degli affari per dimenticare le preoccupazioni politiche, e là correva non appena aveva qualche giorno libero. Eppure la zona è brutta, assolutamente piatta, senza macchie d’alberi che ne interrompano la monotonia, senza un fiume che dia vita alla natura morta o come immersa nel sonno: solo risaie e prati il cui verde insalubre fa contrasto con il bianco dei lunghi sentieri argillosi che, attraversandoli, corrono in linea retta, a perdita d’occhio; poi, molto distanti l’uno dall’altro, dei cascinali vastissimi, o meglio un insieme di costruzioni basse, a mattoni terrosi e giallastri, specie di paesi che sembrano schiacciati sotto un cielo che tutto invade, e che talvolta il vento delle solitudini paludose, apportatore di febbre, viene ad ammorbidire col suo fetido alito.
«Soltanto una volta andai a Leri, nel 1846; vi passai quindici giorni, i primi otto in numerosa compagnia, gli altri solo con Cavour. Di quel luogo, allora animato da colui la cui immagine ora ne rattrista il ricordo, non riportai di certo l’impressione malinconica che, forse, ho troppo accentuato nelle descrizioni fatte. A quel tempo, inutile dirlo, il paesaggio non mi sembrò malinconico né desolata una zona così propizia ai cacciatori, né triste un luogo allietato da un’accoglienza tanto cordiale. Larga ospitalità a Leri, e vita semplice, vita da campagna, non da castello. Partenza all’alba, ritorno ad ora tarda, giornate brevi, pranzi abbondanti preparati dalla vecchia governante che ci serviva anche piatti di cacciagione e il risotto fumante sulla massiccia tavola di quercia, intorno alla quale si faceva dopo pranzo un’allegra partita di lanzichenecco. Allora non giudicavamo piatta la zona, basse e brutte le case, né mefitici i miasmi delle risaie che percorrevamo da mattina a sera. E in quelle risaie, quali raccolti, quali mandrie nutrite da quei prati di cui ho calunniato poco fa il verde! sotto le tettoie che stridore di macchine, che via vai sulle aie, e nei granai che raccolti! Tanta prosperità e animazione, tanta fertilità e ricchezza moltiplicata erano dovute ad un uomo solo, erano il risultato di quindici anni di lotta continua contro la terra, contro l’acqua, contro i pregiudizi, contro la febbre, due volte vittoriosa! Che Cavour prediligesse Leri, opera e conquista sua, e preferisse quei campi monotoni, quella casa rustica al parco avito e al castello di Santena non ci può stupire; d’altra parte, Cavour non fu uno di quegli individui che si riposano andando a leggere Virgilio all’ombra di un boschetto.
«Delle conversazioni avute a Leri con Cavour conservo solo un ricordo confuso; toccavano un’infinità di argomenti, il tono era molto vario. Il conte incoraggiava me e suo nipote Augusto a discutere con lui, e noi gli rispondevamo con una libertà che ora difficilmente riuscirei a perdonarmi, se non fosse scusata dall’ardire dell’inesperienza e della giovinezza»
[1]

«Tuttavia questo ammodernamento dei processi produttivi era ancora troppo limitato per modificare in misura sostanziale i rapporti esistenti tra proprietari e affittuari da un lato e contadini dall’altro, specie per ciò che riguarda la mano d’opera locale, formata da salariati fissi residenti sul fondo. Cavour sorveglia e governa vita privata e condotta di lavoro, moralità e contegno dei "sudditi" con un’intransigenza che spiega facilmente la reputazione d’essere un po’ cane di cui pare che egli godesse in questi anni presso la popolazione contadina locale. Convinto che "in un’azienda quale è questa, una subordinazione severa è il primo requisito di una buona amministrazione", il conte era pronto ad esigerla senza esitazione da tutti i collaboratori; a cominciare dal Corio, consigliere fidato e oggetto di grande considerazione, ma nella sostanza rimasto, anche dopo il suo ingresso nella "società di affittamento", mero esecutore delle direttive del socio-proprietario.
«Gli altri, segretario, parroco e medico compresi, potevano godere della "benevolenza" del conte, ma dovevano anzitutto convincersi che "i miei ordini sono impreteribili". Non parliamo degli "agenti" che stavano alla testa delle tre grange: per questi, "persone rozze e mezzo barbare", era sempre in serbo, quando la persuasione non bastava, una buona "gridata"; e, nei casi più gravi, il licenziamento. Al quale il conte ricorreva senza esitare anche nei confronti di muratori, capi boari, boari e prataioli, deciso com’era ad avere soltanto personale capace e zelante, e a non tollerare abusi di alcun genere. La sua sorveglianza si estendeva anche alla moralità degli abitanti, alle scelte matrimoniali delle giovani del paese. V’era in tutto ciò l’indubbio retaggio di secolari pregiudizi di casta, anche se essi si mescolavano alla connaturata implacabilità dell’uomo, sempre più avvezzo a non avere riguardi per nulla e per nessuno al mondo. Ma per il resto non mancavano in Cavour tratti di vera benevolenza verso i "nostri popolani ch’io trovo assai migliori di quanto li reputa" qualche altro agricoltore del vicinato. Solo che la benthamitica rigidezza con cui aveva studiato il problema dei poveri nella teoria tornava qui ad affacciarsi senza attenuazioni: le piccole speculazioni dei sudditi sulle derrate che ad essi toccavano in natura non mancavano di irritarlo, e quando le cose volgevano al peggio per gli incauti, era pronto a far pesare le conseguenze. "Per far cessare un tale abuso, non voglio fare anticipazioni quest’anno. Darò della roba, ma la farò pagare per quanto vale..."».
[2]

«Quel viaggio durò un anno, fino alla metà del 1843. Rientrato a Torino andò a Leri e fu preso dallo scoramento. Dopo otto anni di lavori e di studi l’azienda rendeva ancora cosi poco! Sulle prime aveva preso di petto il problema della campagna, voleva che gli rendesse denaro. Non si farà nessuna operazione - diceva – che non sia innanzi tutto redditizia. In quegli anni era affamato di soldi, aveva fretta. Pensò di impiantare delle barbabietole, fece un esperimento a Grinzane, lo ripetè a Leri, andava bene. Dalle barbabietole si sarebbe potuti passare a uno zuccherificio. Michele era contrarissimo. Rinunciò di fronte a questa obiezione: che cosa farai se, impiantato lo zuccherificio, qualcuno scoprirà un metodo di fabbricazione più rapido e meno costoso? Aveva fiducia nell’industria, ma era forse vero
che per un’impresa di quelle proporzioni era presto.
Si sfogò con i concimi. A quel tempo si concimava con terra mista a letame e orina, ossa triturate, cascami di cardatura, laniccio, farina di sangue, cuoiattoli, carniccio, ritagli di unghia o di zoccolo o di corna. Si sovesciavano fin le patate, si spargeva tartaro e feccia di vino. Il conte sperimentava ogni combinazione, guai se un certo ordine non fosse stato capito al volo. Soprattutto le ossa triturate erano efficaci. Anche il lavoro della campagna obbedisce a un’ideologia e nel caso di Cavour quest’ideologia consisteva nella «teoria del ciclo chiuso». Vale a dire: io devo avere abbastanza prato per nutrir le bestie e abbastanza bestie per ingrassare le terre. Se l’azienda si alimenta da sé, il reddito è pulito e c’è una soddisfazione intellettuale, una specie di gioia di aver fabbricato un mondo. Il mantenimento di questo equilibrio costringe a una quantità di trucchi. Per esempio, non si può modificare un elemento senza rivedere tutti gli altri. Gli arativi vanno preparati in epoche diverse dai prati e in ogni epoca si deve avere abbastanza paglia e abbastanza letame e non dover comprare fuori. Per la paglia bisogna studiare le rotazioni in modo che i cereali non siano mai meno di tanto. Ugualmente i fieni devono essere giusti. Nessun fieno è così caro come quello che si è costretti ad acquistare. Ma il problema del fieno non era stato risolto, anzi la faccenda del ciclo chiuso non s’era veramente mai verificata e ad ogni primavera bisognava comprare biada fuori. I buoni raccolti erano pieni di mistero come i cattivi. Qualche volta una concimazione scarsa dava frutti enormi, altre volte niente sembrava capace di smuover la terra.
Cavour passava il giorno nei campi e la sera con i libri di Liebig.
Secondo Liebig la terra non può fare a meno di: carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo, zolfo, calcio, potassio, magnesio, ferro. Ogni pianta prende dal terreno quantità di questi elementi che tra loro stanno sempre nella stessa proporzione, così la fertilità di un campo è proporzionata all’elemento più raro. Qualche volta si mette molto concime ed è inutile perché non si rafforza l’unico elemento di cui c’è bisogno. Altre volte un certo concime rafforza proprio quell’elemento, allora la pianta ne prende di più da tutti quanti. Anche sapendo che il sistema è questo, quasi mai si riesce a capire veramente come stanno le cose. A Santena il massimo raccolto di asparagi si ha al quarto anno di semina. Dopo venti-venticinque anni non si raccoglie più niente, bisogna cambiar coltura. Mettiamo che si tenga il terreno trenta o quarant’anni a mais e che dopo si voglia ritornare all’asparago. Niente, non c’è più niente da fare. evidente che all’inizio è stata sottratta qualche sostanza fondamentale, che il mais non ha poi restituito. Solo
la scienza, sperimentando, potrebbe scoprirla.
Conti alla mano, risultò che l’azienda produceva un 50% in più
rispetto a vent’anni prima. Ma gli altri lì intorno avevano avuto lo
stesso incremento, dovuto soprattutto alla scomparsa del brusone.
Inoltre il ciclo chiuso restava una chimera. E il numero delle bestie, più o meno, era sempre quello: non c’era da inorgoglire, anche se Cavour aveva continuato a rifornire il pascià di merinos e aveva incrociato pecore a tutto spiano per ottenere una razza più facile da ingrassare e con la lana sempre di prima qualità.
Fu allora che apparve Giacinto Corio, l’affittuario di Leri. Gli affittuari di solito erano una brutta categoria, prendevano in affitto enormi proprietà e le subaffittavano a lotti più piccoli. Questa era stata la maledizione della terra piemontese. Ma Corio era di tutt’altra pasta e stava sui campi dalla mattina alla sera. Alla meraviglia altrui rispondeva: «E beh, io mi diverto più così che al caffè di Livorno...». Voleva dire Livorno Vercellese, dove aveva un appezzamento. Un altro stava a Casalborgone, un terzo a San Genuario, vicino a Crescentino. Lavorava, pian piano accumulava.
Cavour lo aveva conosciuto una volta che cercava un agente per
Montarucco e Corio gliel’aveva trovato. Nell’estate del 1843 tornò per chiedere al conte di aiutarlo a pubblicare un articolo di risposta a Epifanio Fagnani, che sulla «Gazzetta agraria» aveva esaltato la superiorità degli agronomi della Lomellina. Spiegandogli il suo punto di vista, Corio tracciò le linee fondamentali della teoria del ciclo chiuso e conquistò completamente il conte. Quando ebbe finito, Cavour lo pregò di fare un giro per le sue terre. Al ritorno, Corio approvò tutto, compresa la proporzione tra risaia, seminativo e prato. Tre quinti della tenuta di Cavour erano coltivati a riso. Gli consigliò di provare la qualità della Carolina e di lavorare a solchi il terreno della meliga, in modo da favorire lo spurgo dell’acqua d’invemo. Chiese se avesse mai
provato l’aratro novarese. Promise di tornare e tornò, e Leri cominciò a diventare l’azienda famosa che fu in seguito.
Poco dopo aver incontrato Corio, Cavour sentì parlare per la prima
volta del guano e ne fece venire una piccola quantità. I vicini ridevano. Come mai per far fruttare i campi bisognerà ricorrere agli uccelli del Sud-America? Poi, visti i risultati, smisero di ridere. Nel 1844 il conte ne ordinò due tonnellate a 6.128 lire compreso il trasporto e ne rivendette almeno un terzo. Nel 1845 ne prese 300 tonnellate e non bastava, ormai lo chiedevano tutti. Voleva affittare una nave, mandarla a fare acquisti
direttamente in Perù e in Africa.
C’era una contraddizione tra Corio e il guano. Corio approvava
pienamente il sistema del ciclo chiuso e le rotazioni conseguenti (granturco per lavorar bene il terreno, poi grano e infine riso per tré anni). Nel ciclo chiuso i miglioramenti non possono essere che graduali e complessivi. Il ciclo chiuso è una specie di «giusto-mezzo» applicalo ai campi. Avanti piano piano e tutti insieme e, soprattutto, senza alterare gli equilibri. Invece il guano favorì raccolti enormi, assolutamente sproporzionati. L’elemento decisivo per lo sviluppo dell’azienda non veniva perciò prodotto all’interno del ciclo, andava comprato fuori.
Ma a quell’epoca era ancora tanto lo stupore per le qualità di quel concime che nessuno si soffermò sul suo contenuto rivoluzionario».
[3]