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 2010  giugno 14 Lunedì calendario

CINA, PROVE DI LIBERO SINDACATO

Pechino- Il giorno prima dell’inizio della tradizionale festa del Duanwu, i lavoratori dell’Honda Lock di Zhongshan, nella provincia del Guangdong, hanno concluso il loro sciopero, l’ultimo di una serie di proteste che ha messo in luce l’inizio di un nuovo movimento sindacale semi-ufficiale in Cina. Quelli di Zhongshan si sono mossi prendendo esempio dai colleghi della Honda di Foshan, ancora nel Guangdong, i quali avevano ottenuto aumenti salariali del 24 per cento. Altre proteste con conseguenze di altri aumenti salariali c’erano state nelle settimane scorse nella fabbrica taiwanese di elettronica Foxconn. Nuovi scioperi seguiranno probabilmente nelle prossime settimane in altri stabilimenti che non si adegueranno alla tendenza attuale di aumenti delle paghe nell’ordine del 25-40 per cento. un balzo del potere di acquisto degli operai che sta portando i salari intorno ai 2.000 yuan al mese, circa 300 dollari americani, o anche di più se a questo si aggiungerà l’attesa rivalutazione della moneta cinese. Gli scioperi sono stati ampiamente coperti dalla stampa cinese e i cronisti stranieri non hanno avuto difficoltà a seguire gli eventi, segnali chiari che Pechino non si oppone alle dimostrazioni, anzi. Questa luce verde a nuove richieste di aumenti riguarderà per prime le aziende a capitale straniero, e le prossime nella lista saranno ancora aziende taiwanesi, giapponesi o di altri Paesi asiatici, che nell’immaginario cinese hanno le condizioni di lavoro più dure.
Ma è difficile che dall’ondata si salvino poi anche le aziende di altri Paesi, mentre non si sa se gli scioperi arriveranno mai alle aziende cinesi, dove i sindacati ufficiali esercitano un controllo più energico. Il governo sta in qualche modo sperimentando la libertà di organizzazione sindacale. In realtà proteste e scioperi nelle fabbriche cinesi non sono una novità. Nel Guangdong, origine di un terzo delle esportazioni cinesi, sono cominciate da quasi un decennio, e nel Nord Est del Paese, casa delle aziende più arretrate, in fallimento, iniziarono dalla fine degli Anni 80. Né è una novità una relativa tolleranza delle autorità verso forme di organizzazione operaia che escano dal sindacato tradizionale, integrato rigidamente nel partito. La novità è la pubblicità concessa alla protesta e al suo successo, cosa che dà maggiore libertà alle nuove organizzazioni operaie. Vista la capacità pervasiva dell’organizzazione comunista cinese però è probabile che anche nel nuovo sindacato ci siano già cellule del partito.
La stessa logica c’è dal punto di vista economico. Pechino vuole stimolare la domanda interna: ha bisogno di gente che guadagni di più e possa comprare i beni che produce. Ciò porterà inflazione, ma forse meno di quanto ne abbia portata l’espansione del credito anticiclica, finita spesso nell’immobiliare, l’anno scorso. Per il momento questi aumenti non toccano le esportazioni, tra l’altro minacciate dalla caduta dell’euro. L’export cinese a maggio ha compiuto il suo balzo più grande da sei anni registrando un +48,3%. Gli aumenti salariali sono in parte compensati dall’aumento della produttività e restano protetti da un rapporto qualità-prezzo dei beni cinesi ottimale.
Nel 2009 la Cina è diventata il primo Paese esportatore al mondo, e quest’anno dovrebbe confermare il primato. Ben più pericolosa per Pechino è la pressione Usa per la rivalutazione dello yuan, specie ora che tutte le divise stanno scivolando contro il dollaro.