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 2010  giugno 17 Giovedì calendario

VOLKSWAGEN PARLA ITALIANO


Italia double face. Mentre la Fiat di Sergio Marchionne, dopo aver decretato tra mille polemiche la fine dello stabilimento siciliano di Termini Imerese, è alle prese con la spinosa gestione del caso Pomigliano, la fabbrica campana su cui per investire chiede un’overdose di flessibilità che i sindacalisti Fiom ritengono tossica, per i tedeschi della Volkswagen il Bel Paese è sempre più bello e il tricolore è virtualmente la seconda bandiera del gruppo di Wolfsburg (una scuderia che annovera marchi come Audi, Skoda, Bentley, Bugatti), almeno in ambito europeo, per una lunga serie di ragioni, ultima in ordine cronologico la conquista della firma di Giorgetto Giugiaro, uno dei designer di auto più noti e apprezzati al mondo. Si dice che per il 90,1 per cento dell’Italdesign (800 addetti e oltre 100 milioni di euro di ricavi), Volkswagen abbia sganciato una cifra vicina ai 300 milioni di euro.
In pochi immaginano, però, che ogni anno il gruppo di Wolfsburg, controllato dalle famiglie Piëch e Porsche, investa in Italia circa 2 miliardi di euro per acquistare componenti. Bmw ne spende tra i 500 e i 600 milioni, Renault non arriva a mezzo miliardo. Se si mettono sul piatto anche la Lamborghini e la presenza ai vertici del design e del marketing di Walter de’ Silva e Luca De Meo, si capisce bene quanto sia pesante l’Italia - al di là delle vendite di auto - per il colosso guidato da Martin Winterkorn. Un manager convinto che creatività italiana e ingegneria tedesca siano un’accoppiata vincente. In tanti scommettono che se la Fiat deciderà di vendere l’Alfa Romeo, il primo a farsi avanti per portarsi a casa l’affascinante ma impolverato marchio sarà proprio il professor Winterkorn, 63 anni compiuti il 24 maggio: come regalo ha firmato l’accordo per comprare, il giorno dopo, la creatura di Giugiaro. Lo stilista italiano - che è partner d’antica data di Volkswagen ma ha in corso numerosi contratti con altri concorrenti, da Bmw ai cinesi di Hybrid Kinetic (un accordo pluriannuale da 375 milioni di euro per disegnare e ingegnerizzare otto nuovi modelli destinati agli Usa), ha detto che, in futuro, Italdesign lavorerà solo per i tedeschi: "Giostrare su un portafoglio di dieci marchi, Porsche compresa, sarà più che sufficiente per impegnare le nostre risorse". Qualcuno ha storto il naso, quando si è saputo che Giugiaro sarebbe passato a Volkswagen, temendo contraccolpi negativi per l’industria italiana. Altri, invece, credono che il concentrarsi di Italdesign sui brand Volkswagen aprirà spazi importanti per protagonisti dello stile tricolore come Bertone, Pininfarina, Stola, Fioravanti, Idea Institute, Torino Design. Paiono contenti anche al Centro stile della Fiat. Racconta una persona che conosce bene l’ambiente e preferisce restare anonima: "Da anni non si vedono aumenti di stipendio, da queste parti. L’arrivo della Volkswagen in Giugiaro smuoverà le acque e si aprirà un mercato per accaparrarsi le migliori risorse sulla piazza".
La crescente italianità del gigante di Wolfsburg è il risultato di un lungo cammino, cominciato 36 anni fa proprio nei capannoni di Giugiaro a Moncalieri, alle porte di Torino, dove prese forma la prima Golf. Da allora, la regina del segmento C è stata quasi sempre l’auto più venduta nel Vecchio Continente. Un dominio interrotto saltuariamente, per un mese o due, spesso a cavallo del passaggio da una generazione di Golf alla successiva. "II gruppo tedesco, inoltre, è stato tra i primi a puntare con forza sulla componentistica italiana, intercettando quella fascia di fornitori di medio-alto livello che non trovavano eccessivo sbocco in Fiat, tradizionalmente più impegnata nella produzione di vetture piccole e medie", spiega Marco Santino, esperto del settore auto della società di consulenza A.T.Kearney. Non a caso, nel quartier generale italiano della Volkswagen a Verona è all’opera uno dei principali "Rso" del gruppo. I "Regional sourcing office" sono le strutture incaricate degli acquisti. L’elenco fornitori è affollato, centinaia di aziende tra cui spiccano eccellenze come Brembo (sistemi frenanti), Calearo (antenne), Magneti Marelli (sistemi elettrici), Sabelt (cinture di sicurezza), Pirelli (pneumatici), Momo Design (volanti, cerchi, pomelli). La pelle degli eleganti sedili delle Audi arriva dal polo vicentino delle concerie, da ditte come la Schedoni.
L’Italia è importante però anche per le vendite dei marchi Volkswagen, non solo per gli acquisti. Anche perché la clientela italiana è disposta a riconoscere a Volkswagen un valore di brand superiore a quello delle marche generaliste con maggior facilità di quanto accade su altri mercati. Ciò ha consentito alla principale marca del colosso tedesco di vendere in Italia le sue vetture a prezzi superiori rispetto a quelli praticati, per esempio, in Francia o in Inghilterra.
E se nelle gamme medio-alte, a livello europeo, non c’è stata partita negli ultimi anni tra i tedeschi e la Fiat, l’impressione è che nei prossimi anni i due gruppi, che pure non sono comparabili né per dimensioni né per stato di salute, siano destinati a darsi battaglia con maggiore intensità. La Volkswagen ha chiuso un decennio in cui ha sempre macinato utili, mentre la Fiat è stata salvata da Sergio Marchionne, con un’impresa giudicata impossibile persino da una parte della famiglia Agnelli, che ha chiesto per anni di saltar giù dall’auto. Il boss del Lingotto ripete da mesi che per sopravvivere bisogna produrre 6 milioni (nel tremendo 2009 Fiat e Chrysler insieme sono arrivate a quota 4 milioni), promettendo di raggiungere l’obiettivo nel 2014, mentre il gruppo Volkswagen di vetture ne ha vendute 6,3 milioni già l’anno scorso e ha nel mirino la maglia rosa mondiale Toyota, distante solo un milione di unità. In Borsa, i tedeschi capitalizzano oltre 31 miliardi di euro, più del triplo degli italiani. Ed è anche per sfondare finalmente nelle auto piccole, il terreno preferito di Fiat, che a Wolfsburg un anno fa hanno ingaggiato Luca De Meo, brillante protagonista del funambolico lancio della 500. Lo hanno appena promosso capo del marketing di tutto il gruppo: nomina che ha coinciso con un’altra emigrazione a Wolfsburg: quella di Giovanni Perosino, estroverso manager dagli impeccabili gessati, ex fedele braccio destro di De Meo a Torino.
Se riusciranno l’integrazione dei marchi Chrysler e Lancia in Europa e il problematico rilancio dell’Alfa, per contro, la Fiat potrà provare a dar fastidio al gigante teutonico nel suo consueto territorio di caccia, quello delle vetture medie e medio-alte. Non sarà facile. Nessuno, tra i grandi gruppi costruttori, può vantare oggi uno stato di salute come quello della Volkswagen. Soprattutto per due motivi. Ha acquisito un colossale vantaggio competitivo sul mercato più promettente del mondo, quello cinese, dove ha venduto già 1,4 milioni di auto nel 2009. E ha messo a punto un sistema di piattaforme (o "archetipi", come dicono i tecnici) che le consentono di sviluppare con costi contenuti un’infinità di modelli, capaci di coprire quasi tutte le nicchie di prodotto e geografiche. Dimenticando le persistenti difficoltà della spagnola Seat, solo nelle piccole auto e in Nord America la forza di Wolfsburg non s’è ancora totalmente dispiegata. Due problemi che toccherà agli "italiani" di Germania risolvere. La capacità di sviluppare e produrre bene le auto, anche grazie a rapporti industriali che alla Fiat (in Italia) si sognano, è infatti assodata. Nei prossimi anni, il marketing creativo di De Meo dovrà far volare la futura famiglia di citycar Up e far diventare il marchio Volkswagen un’icona mondiale, mentre la matita di de’ Silva, corroborata dalla sapienza di Giugiaro, dovrà far breccia tra gli automobilisti yankee.