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 2010  giugno 03 Giovedì calendario

L’ITALIA DISARMATA

La parata militare del 2 giugno ha sempre un grande fascino. Ogni volta che vedo i soldati sfilare penso che quella sia la parte migliore del Paese, ma dietro l’immagine celebrativa, le insegne, i canti e il legittimo orgoglio, c’è un’altra faccia della medaglia. Mentre le frecce tricolori sorvolavano la Capitale e il Presidente Giorgio Napolitano gonfiava il petto di fronte ai nostri soldati, il Sipri di Stoccolma - uno dei più importanti centri studi sui conflitti, la pace e la sicurezza - diffondeva il suo rapporto annuale sulla spesa militare nel mondo. L’Italia nel periodo 2000-2009 ha il record nel taglio del budget per la Difesa.
Un calo del 13,3% che non ha paragoni nel mondo. Gli unici due Paesi che registrano il segno meno sono il Giappone (-1,3%) e la Germania (-6,7%). La vulgata pacifista dirà che siamo in presenza di un dato ottimo, una cosa di cui andar fieri. Questo è un elemento che può funzionare presso l’opinione pubblica meno informata sulla politica estera, alcuni circoli culturali e religiosi (non a caso ieri l’Osservatore Romano parlava di "lodevole primato") ma chi guarda con realismo agli affari internazionali non può fare a meno di notare che questo dato per la nostra politica estera non è affatto un buon segno.
I nostri 35.8 miliardi di dollari spesi nella Difesa in realtà sono assorbiti in gran parte da costi del personale (9,5 miliardi di euro), dalla parte relativa ai Carabinieri (5,5 miliardi di euro) e solo circa 2,8 miliardi riguardano gli investimenti veri e propri nel settore. Dietro queste scelte di bilancio ci sono conseguenze sia sulla politica estera che sullo sviluppo economico. Basti pensare che Finmeccanica (uno dei campioni nazionali strategici insieme ad Eni ed Enel) ha 73mila dipendenti (il 41 per cento di questi è all’estero) e un portafoglio ordini di 45 miliardi di euro di cui solo la metà nei suoi tre mercati "domestici" (Italia, Regno Unito e Stati Uniti). Eppure proprio il campo da gioco della politica estera è stato il migliore dell’era berlusconiana. Il presidente del Consiglio ha stretto eccellenti relazioni con molti Paesi strategici, ha confermato la nostra scelta Atlantica ma nello stesso tempo ha consentito all’Italia di muoversi con equilibrio e autonomia rispetto a Washington, è un partner solido della Russia, nel Mediterraneo giochiamo un ruolo importante e con la Libia abbiamo una relazione speciale che è molto preziosa. Tutto questo avviene in assenza di investimenti seri e ponderati nella Difesa e, francamente, siamo di fronte a un’altra occasione perduta. La crisi finanziaria, la corsa al debito sovrano dei Paesi occidentali, il rallentamento globale della spesa militare potevano essere una buona opportunità per l’Italia di stare tra i Paesi che influenzano la politica mondiale puntando qualche fiche in più sul tavolo da gioco della spesa militare.
Gli Stati Uniti continuano a guidare la corsa, l’amministrazione Obama non ha cambiato granché i flussi di spesa, i Paesi emergenti del Bric (Brasile, India, Cina e Russia) aumentano gli investimenti ponendosi come potenze intermedie di fronte a Washington, unica potenza globale. Sono questi movimenti a indicare i prossimi trend del futuro nella governance mondiale. Anche durante la crisi però Francia e Gran Bretagna hanno accresciuto la spesa e questo, se vi fosse una visione a lungo termine del nostro Paese, dovrebbe indurci a riflettere sul nostro ruolo nel mondo. Non potendo contare su un’economia che cresce in modo sostenuto, l’Italia poteva far pesare nelle relazioni internazionali la sua abilità - da tutti riconosciuta - come partner nelle operazioni di peacekeeping. Ma per farlo occorre avere un disegno, un’idea concreta, una capacità di guardare avanti che mi pare siano assenti dal dibattito politico in questo settore. E non solo.
I nostri soldati sono di gran lunga i migliori quando si tratta di ricostruire e riconciliare. Ho avuto la fortuna di incontrare il generale Petraeus, artefice della svolta nella guerra in Iraq, oggi responsabile del Centcom, il comando militare americano su tutto il Medio Oriente, e dalla sua viva voce ho potuto apprendere quanto sia apprezzato il lavoro dei nostri soldati in missione all’estero. «More carabinieri», più carabinieri, disse mentre illustrava quel che serviva in contesti molto difficili come quello iracheno.
In Italia invece si discute periodicamente di exit strategy come se stessimo filosofando sulla nazionale di calcio. Non c’è alcun interesse per le sorti della Difesa e i giornali dell’opposizione criticano la politica del cucù di Berlusconi ma non mettono sul piatto delle loro considerazioni sulla politica estera l’unica che andrebbe fatta: servono investimenti seri sulla Difesa, sulla diplomazia, sulla formazione di una generazione di uomini e donne italiani che portano il tricolore nel mondo e lo fanno in nome non di una pace finta e velleitaria, ma in maniera concreta e qualche volta a prezzo della propria vita. Ecco, i nostri soldati meriterebbero più rispetto e attenzione da parte di tutti. Neppure su questo, l’Italia riesce ad eseere un Paese unito.