Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 03 Giovedì calendario

«Finché ho vissuto ho fatto tutto quello che mi andava». Marc Rossi è seduto di fronte a me, ma parla come se ormai non ci fosse più

«Finché ho vissuto ho fatto tutto quello che mi andava». Marc Rossi è seduto di fronte a me, ma parla come se ormai non ci fosse più. Gli faccio notare che ha usato il passato, come se fosse già morto. « così che mi sento», risponde. Marc abita da solo nella sua villetta a Portland, in Oregon, il primo Stato americano (seguito da quello di Washington l’anno scorso) ad avere approvato una normativa che consente ai malati terminali di togliersi la vita. Una legge, il Death With Dignity Act, morte con dignità, unica al mondo. Non si tratta di eutanasia, perché è riservata a malati con un’aspettativa di vita non superiore ai sei mesi, ma anche capaci di intendere e di volere, nonché di reggere in mano il bicchiere con dentro sciolti i 10 grammi di Seconal, corrispondenti al contenuto di 100 capsule, e di berlo. E non si tratta neppure di «suicidio assistito» come comunemente viene definito perché, mi fanno notare, queste persone sono destinate a morire comunque. «Sembro un vecchio, ma ho solo 55 anni», dice Marc, la voce che si fa strada a fatica in gola, «fino a quattro anni fa ho fatto una vita normale, facevo la mia ginnastica al mattino, portavo fuori il cane, andavo al lavoro, non mi ammalavo mai. All’improvviso ho cominciato a stare male. All’ospedale mi dissero che il mio pancreas non funzionava». Da allora lo hanno operato dodici volte, da un anno e mezzo si nutre per endovena. «Passo il mio tempo in casa, non ho energie, ho sempre freddo. Sto a letto, guardo la televisione, non posso leggere perché mi stanco subito. Non c’è molta differenza tra vivere in questo modo ed essere morti». L’ULTIMO WHISKY Marc ha stabilito che, quando sarà il momento, non vorrà avere nessuno intorno perché, dice, «ci sono cose che devi fare da solo, e morire è una di queste». Ma non è così che decide di fare la maggior parte delle persone, spiega George Eighmey, 69 anni, direttore di Compassion and Choices of Oregon, l’unica associazione in tutto lo Stato che offre supporto ai pazienti e ai loro familiari. Ci lavorano 34 volontari che, in questo momento, stanno seguendo una cinquantina di pazienti. «Una donna organizzò una weekend ceremony. In casa ci saranno state almeno cento persone, da bere, da mangiare e anche parecchia marijuana. Mi chiese di ballare, poi, a un certo punto, disse: ”Okay, sono pronta. Ma è un problema se prima bevo un goccio di alcol? Non lo faccio da trent’anni”. Le dissi che anzi era una buona idea e le versai un po’ di whisky. ”Ehi, lo chiami un bicchiere quello?”, mi domandò, prese la bottiglia e se ne versò dell’altro», ride Eighmey. E racconta che prima di porgere il bicchiere con i barbiturici, è prassi che uno dei volontari dica: «Puoi ancora cambiare idea. Ricordati che se lo bevi, morirai». Spiega che «è un modo per testare la capacità di intendere e di volere», e che un paio di volte si sono dovuti fermare perché le persone non erano più in grado di ragionare lucidamente. «Ma capita anche che qualcuno cambi idea all’ultimo, magari anche solo per rimandare di una settimana». Compassion and Choices of Oregon è nata nel 1997, dopo che un referendum rigettò la proposta di cancellare la legge, approvata tre anni prima con il 51 per cento dei voti a favore, e la norma divenne, quindi, operativa. Dal gennaio 1998 a oggi sono 481 i malati terminali che hanno scelto di abbreviare la loro agonia. I loro nomi sono tutelati dalla privacy e anche quelli dei medici che aderiscono al programma (a meno che non decidano spontaneamente di parlare): non si sa chi siano, né quanti, anche perché qualunque medico può accettare la richiesta di un paziente e firmare la prescrizione al termine di una procedura che prevede il parere concorde di due dottori e, se necessario, di uno psicoterapeuta. «Dobbiamo escludere che vogliano morire a prescindere dalla malattia», dice Nick Gideons. «Per questo a tutti chiedo: ”Se per miracolo domani lei fosse guarito, sarebbe una buona notizia?”. La riposta è sempre la stessa: ”Certo che sarei felice”». Gideons, 49 anni, è un medico di famiglia. Confessa che quando in Oregon si cominciò a parlare della legge, l’idea lo lasciò un po’ perplesso. «Mi domandavo se non ci fosse il rischio di perderne il controllo, ma proprio parlare con i miei pazienti mi convinse a votare a favore. E oggi sono contento di averlo fatto». Spiega che solo il 10 per cento di chi soffre di una malattia incurabile decide di informarsi sulla procedura da seguire, e che meno dell’1 per cento presenta una richiesta formale. Di questi, il 30-40 per cento, sebbene riceva la prescrizione, non prende le medicine. «Un mio collega, malato di cancro, mi disse che gli bastava il fatto di averle a portata di mano, che sapere di poterlo fare era già un sollievo. Alcuni, alla fine, scelgono la sedazione terminale, ovvero di essere tenuti in uno stato di semi-incoscienza fino al sopraggiungere della morte naturale, oppure smettono semplicemente di bere e di nutrirsi», dice con un sorriso. UNA TAZZA PREPARATA IN CUCINA Susan Smith è seduta su una vecchia poltrona. Il modo in cui si muove e parla emana un senso di pace così forte che lo sento attraversarmi la pelle. Vive in una zona residenziale di Eugene, a un paio di ore da Portland, una specie di villaggio nel bosco. Suo marito Joe è morto nel 2005, aveva 77 anni e un tumore ai polmoni. « successo proprio qui, su questa poltrona, con i suoi figli, il cane e gli amici intorno a lui. Non aveva paura, aveva studiato e praticato diverse religioni: ”Ho studiato il mistero a lungo e ora devo andarci”, diceva». Dal 2008, Susan lavora al Compassion and Choices of Oregon, ma ai tempi in questa zona non c’erano volontari. «Mi mandarono un fax con le istruzioni. Sono infermiera e psicoterapeuta per cui pensavo di potermela cavare, inoltre la figlia di mio marito si offrì di darmi una mano. Eravamo in cucina, due donne con una tazza di purea di mele e un po’ di cannella. Mi sentivo come una moglie che prepara la cena, ma intanto pensavo: ”Questo cambierà la vita di tutti”. Joe aveva l’abitudine di pulire la scodella con il cucchiaio, lo fece anche quel giorno. Fu il suo ultimo gesto ironico». la perdita della dignità Pat Dennis, 72 anni, mostra le foto del marito. Alan è morto nel 2002, a 68 anni, per una malattia degenerativa al cuore. «Ci eravamo incontrati in Francia nel 1984, fu molto romantico. Era l’uomo più brillante che abbia mai conosciuto. Ai tempi vivevo in Alabama, decisi di trasferirmi per stare con lui». A Portland, Pat arrivò poco prima della grande epidemia di Aids. L’agonia atroce di tanti giovani, a quell’epoca soprattutto uomini, fu una delle ragioni che portò a discutere di eutanasia. I tempi erano maturi per il dibattito, e in Oregon c’erano tutte le premesse per arrivare a un’approvazione della legge. Questo Stato, infatti, vanta il primato di altre leggi «progressiste», come il Bottle Bill (per la raccolta differenziata) e un Beach Bill che vieta la proprietà privata della spiaggia lungo tutta la costa, ed è il primo Stato dove si è cominciato a votare esclusivamente per posta. Inoltre, le statistiche dicono che solo il 20 per cento della popolazione identifica i propri valori con quelli di una religione, percentuale che sale a circa il 50 per cento nel Sud degli Stati Uniti. Pat ricorda quelle discussioni. Capitava anche che ne parlasse a casa con suo marito: «Dicevamo che se uno dei due si fosse ammalato gravemente, la cosa migliore sarebbe stata che l’altro ne abbreviasse le sofferenze», dice, «ma un conto è parlarne in generale, un conto è quando si tratta di una scelta concreta. Alan si ammalò nel 1993 e cominciò a ragionare sulla possibilità di usufruire della legge due anni prima di morire. A quel punto la domanda è: quando? Dalla prima visita alla prescrizione non passano meno di 16 giorni, di solito però i tempi sono più lunghi, un mese, un mese e mezzo. Alan aveva due figli ma, purtroppo, nessuno dei due se la sentì di essere presente. Il giorno stesso, vennero a casa due volontari. Gli diedero il bicchiere mentre io ero sdraiata sul letto al suo fianco e lo abbracciavo. Rimasi lì anche dopo che si fu addormentato, continuando a ripetere: ”Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo”». Secondo i dati ufficiali, le ragioni che spingono i pazienti ad accelerare la propria morte non hanno a che fare principalmente con la paura del dolore fisico. A preoccupare è prima di tutto la perdita di autonomia, poi della dignità e di ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. «Una volta che non c’è più speranza preferiscono scegliere come e quando. Non vogliono essere ricordati in un letto a soffrire o privi di coscienza», dice Esther Bell, 53 anni, fisioterapista e volontaria da oltre cinque. Finora ha aiutato una trentina di malati. E ogni volta ha pianto, mi dice, «perché è una perdita». Ma anche un privilegio perché ognuno di loro le ha lasciato qualcosa dentro: «Ho imparato a stare nel presente, a dire subito ”ti voglio bene” alle persone che ho care: non aspetto più, perché so che potrei non rivederle». Fra tutti i pazienti, alcuni le sono rimasti in mente in modo particolare. «Una donna, soprattutto: viveva in un piccolo paese e doveva guidare 150 miglia, con la bombola dell’ossigeno sul sedile, per arrivare alla prima città dove c’era un medico disposto ad aiutarla. Chiese a un pastore di poter ricelebrare le nozze prima di morire, ma la risposta fu che sarebbe stato ”inappropriato”, la sua infermiera le disse che avrebbe sofferto terribilmente e che suo marito sarebbe finito in prigione. Quando andò a prendere le capsule, il farmacista le urlò di fronte agli altri clienti che solo Dio può decidere quando è il nostro momento. Insomma fu tutto terribilmente complicato, ma lei non si arrese, e nonostante stesse per morire denunciò quel farmacista perché non voleva che lo stesso potesse accadere a qualcun altro». UN FILM DI HOLLYWOOD Attualmente il Seconal è l’unico barbiturico utilizzato, perché ha il vantaggio di agire rapidamente: «Ci si addormenta in 2-3 minuti e si muore entro 12 ore, ma quasi sempre in non più di un paio», spiega Gideons. L’unico difetto è il costo: da 450 a 680 dollari a seconda della farmacia, e il motivo è che questo medicinale, usato comunemente come sonnifero negli anni Sessanta, oggi ha un mercato ristretto che ne ha fatto lievitare il prezzo. Tom Leach si alza per mostrarmi dov’era mentre preparava il cocktail da dare alla sua compagna. Abbie oggi avrebbe 59 anni, Tom ne ha 63 e abita a Philomath, a meno di due ore da Portland, nella casa dove hanno vissuto insieme tre anni. Sul retro c’è un piccolo ruscello dove parte delle ceneri sono state disperse, di fronte il giardino. Tom indica fuori dalla finestra. «Era il 15 maggio dell’anno scorso, le piante erano tutte fiorite, era una bella giornata, c’era il sole, faceva caldo. So che può suonare strano, ma sembrava la scena di un film di Hollywood». Se la morte di Abbie vale la scena di un film, la loro storia d’amore vale un’intera sceneggiatura. Si erano conosciuti durante una vacanza in Messico, e Tom si era trasferito qui il giorno stesso in cui Abbie scoprì di avere un tumore alla colonna vertebrale. Da allora cominciò a prendersi cura di lei. «E avrei continuato a farlo», dice, «ma sapevo quanto la facesse soffrire perdere la sua autonomia. Era sempre stata una donna forte, piena di salute. Faceva la veterinaria, e per anni aveva praticato l’eutanasia sugli animali malati, diceva spesso: ”Mi domando perché non si possa fare lo stesso con le persone”». Tom mostra la foto che le scattò pochi minuti prima che morisse. Abbie è seduta su una poltrona, i due figli, una ragazza e un ragazzo, all’epoca di 22 e 24 anni, ai due lati, ognuno dei due le tiene una mano. «Il suo cuore era molto forte e temevamo che ci sarebbe voluto parecchio tempo», ricorda, «invece, morì nel giro di pochi minuti. Credo che fosse pronta».