Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  giugno 03 Giovedì calendario

ARGOMENTI DI: ROSARIO ROMEO, DAL PIEMONTE SABAUDO ALL’ITALIA LIBERALE, EINAUDI, TORINO 1963 (1)


I piemontesi fedelissimi dei Savoia. «Fin dal tempo di Carlo Emanuele I un ambasciatore veneto notava che in Piemonte la fedeltà al sovrano era divenuta «superiore a qualsivoglia altra nazione che sia oggi al mondo: di altro non si gloriano che di essere sudditi del duca di Savoia, né vi è suddito che per lui non si farebbe martire» (5).

Caratteri della nobiltà piemontese in Balbo e d’Azeglio in (6-7). Il vecchio Piemonte «"pays essentiellement militaire" dove il governo era caratterizzato da una "admirable simplicité" e "la marche des affaires était simple et régulière". "Les privilèges oppressifs et humiliants pour les classes inférieurs, le monopole, la diversité des lois, l’exclusion des carrières publiques n’existaient pas en Piémont, où la paix intérieure ne fut jamais troublée avant que la Révolution Francaise eut soufflé à l’étranger l’esprit de discorde. Le Piémont et la Savoie, pays essentiellement agricoles, avaient peu d’industries, et ne manufacturaient en général que la soie, les chanvres produits de leur sol. Le gouvernement ne favorisait que l’agriculture; il ne désirait pas qu’un peuple, auquel le sol pouvait donner encore d’utiles moyens d’existence, devint industriel, il en calculait les danger pour les moeurs et le courage, et il ne croyait pas devoir sacrifier à la richesse les avantages d’une population vigoreuse, morale, sobre et tranquille. Le commerce était favorisé dans le limite d’une juste liberalité, mais il était loin d’etre regardé comme une puissance à l’avantage de laquelle il fallut jamais sacrifier d’autres considérations d’Etat"» (pag. 7, dalle memorie di Alessandro di Saluzzo). Balbo: «Meno ferocia, più valore militare, prima feodale, poi militare propriamente detto, meno mutazioni, quindi meno variabilità, più costanza, più fedeltà; quindi poi meno eccitamento di passioni, meno uso di ogni facoltà; in tutto più sodezza e meno vivacità» (7). Romeo: «Autoritarismo militaresco e paternalistico» (8).

Azione del Vallesa durante la Restaurazione in 8-9 (appoggio russo in funzione anti-austriaca).

La classe dirigente sabauda convinta «che un dominio di così varia composizione etnica, linguistica e storica come quello dei Savoia potesse serbarsi saldamente unito solo attorno a un governo assoluto, che dall’alto procedesse con criteri unitari di amministrazione e di politica». Soprattutto ora che era stata annessa anche Genova (9). E inotre l’avversione di principio per tutto quanto era stato prodotto dalla Rivoluzione francese e dal Piemonte (10). Editto del 21 maggio 1814 (10). Tra l’altro «si aboliva il matrimonio civile tornandosi al canonico; il divorzio veniva soppresso; si restaurava la legislazione speciale a danno degli ebrei e dei valdesi con disposizioni anche ripugnanti alla coscienza moderna, come quelle che obbligavano gli ebrei alla residenza nel ghetto, e facevan loro divieto di risiedere in case che guardassero su strade abitualmente percorse dalle processioni o su cortili abitati da cristiani ecc.» (10).

Dazi e barriere non solo all’esterno, ma anche all’interno «specialmente grave la barriera frapposta fra Piemonte e Genova fino al 1818 che ebbe parte non piccola nel determinare la carestia gravissima che nel 1817 afflisse le province liguri, impedite di rifornirsi di grano dal più produttivo Piemonte» (10).

Marasma economico generale, discesa dei prezzi che, cominciata nel 1817, durerà fino al 1847 (11).

«La politica della restaurazione si rivelò assolutamente impari a fronteggiare questa grave situazione, come mostrano tutti i dati economici principali fino al 1830. Le corporazioni e i privilegi restaurati, i divieti che colpivano le merci non solo all’importazione ma anche all’esportazione, il crollo dell’esportazione principale, quella della seta (che dal 78,7% del totale nel 1752 scendeva al 34,3% nel 1818-21), si riflettevano nel deficit della bilancia commerciale, per la quale si prevedeva nei due anni 1818-1819 un disavanzo di 47 milioni» (11).

Scandalo al congresso di Vienna per l’espulsione dei professori dall’Università (11).

23 settembre 1817 dimissioni di Vallesa per via di un urto con la regina «su questioni di interesse privato della famiglia reale» (12). Subentra il San Marzano, un anno dopo (1818) si dimette dall’Interno Borgarelli e gli succede Prospero Balbo (12). Balbo si giustifica del servizio prestato per Napoleone scrivendo «di aver impedito molto male».

Disposizioni su fidecommessi, beni nazionali, affitti superiori alle 10 mila lire (editto del 17 settembre 1816) ecc. in 13.

«Tutti i rapporti sociali, insomma, erano ormai su un piano assai diverso da quello auspicato dai conservatori: e una espressione eloquente dell’impotenza di costoro davanti alla nuova realtà si ha in un documento di poco più tardo, redatto dal Consiglio di commercio di Torino al tempo di Carlo Felice. Prima della Rivoluzione, si ricordava, "le classi inferiori vestivano in altra guisa e più modestamente, né potevano rivalizzare nello sfoggio colle classi superiori, la loro inferiorità essendo manifesta anche nelle apparenze. Nasceva da questa distinzione una più utile separazione, poiché, non avendo luogo tra queste classi una abituale comunicazione o corrispondenza, si conservavano le abitudini dei diversi ceti e ne risultava verso le persone più distinte della società un maggior rispetto: l’onore era insomma la molla più efficace de’ felici tempi di allora". Invece "la rivoluzione produsse fra gli innumerevoli altri mali quello di distruggere questa base e di introdurre una totale confusione nelle diverse classi. Divennero ricche persone delle classi inferiori o quelle specialmente cui la delicatezza e i sani principi d’educazione non erano famigliari... ed un onesto guadagno non era più il principio d’alcuna professione, tutti volevano arricchirsi presto e seguire almeno il costume dei ricchi... Tutti vestono nella stessa forma, non si distingue il nobile dal plebeo, il mercante dal magistrato, il proprietario dall’artefice, il padrone dal cameriere e si conserva purtroppo, almeno nelle apparenze, il funesto principio che creò le rivoluzioni"» (14)

16 gennaio 1835, lettera di Michele di Cavour a Gaspard De La Rive: «"Ote-toi de là que je me mette à ta place" est le moteur des bien des actions et d’opinion soutenues avec plus ou moins de talent, presque toujours avec passion» (16).

Lotta tra il partito riformatore del Balbo e i conservatori di Borgarelli nell’epoca che precede il ’21 (16-17).

«Una giovane nobiltà, nel senso fisico ma più nel senso morale» crebbe «in quella Accademia dei Concordi che nel 1804 raccolse gli adolescenti Cesare e Ferdinando Balbo, Luigi Provana, Luigi Ornato, Carlo Vidua ed altri in un semiserio sodalizio mirante principalmente alla difesa della lingua e della tradizione italiana» molto in funzione anti-francese (17-18).

Vittorio Alfieri (fondamento morale, per esempio di Santorre di Santarosa): «"La virtù è quella tal cosa, più ch’altra, cui il molto laudarla, lo insegnarla, amarla, sperarla e volerla, la fanno pur essere; e che null’altro la rende impossibile, quanto l’obbrobriosamente reputarla impossibile". Questo atteggiamento morale, la persuasione che "un’alta idea di sé, per quanto si può osservare nei fatti, ha generato sommi effetti, non solamente in alcuni individui, ma per fino nei popoli interi", la certezza che "nel più delle cose, il crederle fortemente le fa essere" è alla radice della volontà di tradurre in atto le idee e le speranze di unità nazionale italiana che circolavano già ed erano nate durante le repubbliche italiane e il regno d’Italia» (18).

«Nel complesso il moto piemontese rimase al di qua del limite raggiunto invece dall’ambiente lombardo del Conciliatore, e per ciò stesso legato a moduli e forme classicheggianti alquanto arretrate rispetto ai problemi che agitavano allora il mondo culturale europeo. E ciò spiega il distacco e i giudizi polemicamente severi, ma tuttavia importanti, che anche membri piemontesi del moto romantico diedero all’atmosfera culturale subalpina del tempo. Così il Di Breme che accusava "le circostanze sociali, gli schifosi pregiudizi e la tenebrosa ignoranza del paese... L’Italia ha bisogno, per risorgere, per intimidire i suoi carnefici, di conoscere l’immeso vero che raggia in Europa. Voi di libri europei non ne leggete perché siete persuasi che tutto, tutto è nei nostri..." o Silvio Pellico, il quale giudica gli amici torinesi "ardenti patrioti" ma sempre "all’Alfieri: aborrono la tirannide ed amano la libertà, ma sempre in astratto, sempre guardando i greci e i romani, sempre disprezzando i moderni» (19).

I giovani nobili piemontesi, quelli del 1821, rimasti pur sempre ancorati alla monarchia sabauda «con il suo esercito, le sue tradizioni militari, la secolare funzione italiana di cui allora cominciava l’esaltazione, che dalla storiografia aulica verrà spinta poi al di là dei limiti di ogni ragionevole verosimiglianza» (19)

Santarosa il 9 maggio 1815 all’amico Provana: «Egli è soprattutto quando i miei corni da caccia suonano una rapida e viva marcia, e mi veggo sfilar davanti i miei giovani di aspetto ardito e quasi dispettoso, che il mio sangue bolle e ribolle dentro le vene. Egli è allora che dico tra me: perché non nacqui inglese, prussiano, russo? Nella mia disperazione dico persino: perché non nacqui francese? Non sarà mai che io stringa un brando italiano, che io guidi tra i perigli soldati italiani?... Federico padre di Federico II creò la Prussia, creando l’esercito. Vittorio Emanuele potrebbe creare il Piemonte creando l’esercito. Sessantamila soldati disciplinati ci renderebbero rispettabili. Venticinquemila soldati insufficientemente ordinati che sono essi mai?» (20). L’esempio prussiano non casuale, guerra di liberazione nazionale 1813-1814.

Il moderato Cesare Balbo: «Quando si combatte per una provincia o per un trattato di commercio si può, anzi si deve, combattere moderatamente; quando si combatte da forte contro debole, o da eguali, si può, forse si dee, combattere moderatamente. Ma lo schiavo che fugge il suo signore ed è raggiunto ed investito dagli sgherri non pone misura o riguardo nella sua difesa prima che tutti non gli abbia atterrati [...] noi da cittadini spartani non da cavalieri francesi dovremmo prepararci a combattere e morire, non con brio né per gloria, ma con ferocia, e per la Patria» (20-21)

Esercito = monarchia (21). Vittorio Emanuele I nel bilancio del 1816 su 54 milioni di uscita il solo ministero della Guerra ne assorbiva 27, cioè il 50%. Si aspira a un’armata di 80 mila uomini in tempo di pace. Il rer convinto di poterne mettere insieme facilmente 500 mila dalle province, da cui «"cette hardiesse de chicane et de résistence aux réclamations des puissances étrangère, dont nous sommes tous le jours le témoins» (l’incaricato d’affari francese) (21-22)

15 aprile 1814, istruzioni al ministro sardo G. Rossi: «che la divisione d’Italia avesse avvilito la nazione e sempre turbato la pace d’Europa era un argomento di cui la diplomazia piemontese non aveva mancato di valersi durante le trattative del 1814, per esempio a sostegno della proposta di una federazione italiana sotto direzione militare piemontese allora avanzata, e giustificata con l’argomentazione che "benché non sia possibile unire gli italiani sotto una sola corona, si può formare una sola federazione della Nazione" di cui "il capo militare e il rappresentante sarà chi ha la custodia delle Alpi"» (21)

L’ovvia tendenza piemontese a espandersi a oriente in 21 (Francesco Gambini nel 1816).

Avversione generale per gli austriaci in 22.

Di qui l’equivoco dei patrioti del 1821, soprattutto per via del «contrasto insanabile per le implicazioni liberali che il programma della giovane nobiltà comportava» (22).

Cesare Balbo, moderatissimo: «la richiesta di una Costituzione è ammissibile solo da parte di sudditi imploranti e geniflessi intorno al sovrano» (23)

L’avvicinamento della giovane nobiltà a Carlo Alberto, «lusingato già allora, nel fumoso e mistico sentimento della propria "missione" non disgiunto forse dal disegno poilitico di mettere i programmi dei liberali al servizio delle proprie ambizioni» (23)

«Le sette antinapoleoniche che avevano combattuto l’Impero in nome di un programma liberale, rimasero presto deluse dalla Restaurazione, e proseguirono la loro attività contro il nuovo governo: mentre la Massoneria, ufficialmente riconosciuta sotto l’Impero, veniva proibita dal nuovo regime. Il nucleo della opposizione settaria in Piemonte pare si debba vedere nella Società degli Adelfi, formata da elementi militari e da vecchi giacobini avversi all’Impero già prima della caduta di Napoleone. Successivamente gli Adelfi, nel 1818, vennero inseriti come un grado inferiore, o una società subordinata, nella setta dei Sublimi Maestri Perfetti, creata e diretta dal vecchio cospiratore giacobino ed egalitario di Filippo Buonarroti. Caratteristica dell’organizzazione buonarrotiana, che sembra avesse a Torino il suo maggiore centro italiano, era il gradualismo...» (24).

Società dei Federati protagonista del 1821 (costituzione e indipendenza) e sua diffusione nell’alta Italia (24-25). La costituzione di Spagna divide i Federati (nobili per costituzione inglese, il grosso dei borghesi, sottufficiali ecc. per la spagnola monocamerale, adottata pure a Napoli) (25). Poiché gli austriaci marciano su Napoli, Santarosa vuole indurre il re a invadere la Lombardia per prenderli alle spalle (25-26). Balbo contrario, l’ambasciatore spagnolo Bardaxi preme sui nobili perché seguano Santarosa, li persuade. Fatto del teatro d’Angennes 12 gennaio 1821 (26) che sposta l’opinione pubblica a sinistra (Santarosa: «La giornata di ieri ha spento i Pari in Piemonte» cioè la possibilità di una bicamerale). (27)

6-9 marzo 1821 colloqui tra Carlo Alberto e i congiurati in cui il principe si tira indietro (28)

notte 9-10 marzo: moto militare ad Alessandria (28)

11-12 marzo: Vittorio Emanuele I sta per concedere la Costituzione, persuaso dal Balbo, quando da Lubiana San Marzano fa sapere che la Santa Alleanza è contraria (28). Il re abdica.

22 marzo Carlo Alberto, concessa la costituzione spagnola, con truppe a Novara, dove stava con le truppe realiste il maresciallo Vittorio Sallier de La Tour. Santarosa si proclama fedele di Carlo Felice, che considera prigioniero degli austriaci. Carlo Felice sconfessa tutti. Rapida incursione vittoriosa degli austriaci l’8 aprile 1821 (29).

Le tre condanne a morte realmente eseguite in 29. Le altre condanne e il clima gretto instaurato da Carlo Felice in 30 («les mauvais sont tous lettrés et les bons sont tous ignorants», 31). «L’indirizzo meramente repressivo, il bigottismo gesuitico, il sistema di assoluta immobilità e di diffidenza verso ogni proposta di miglioramenti, anche solo amministrativi, che caratterizza tutto il regno di Carlo Felice, e che suscitava la deplorazione persino di osservatori austriaci, timorosi che lasciando sussistere un "mécontentement provenant d’une malaise non idéal mais fondé" si finisse per preparare il terreno a un’altra esplosione. Veniva così incrinata quella salda unione di sudditi e sovrano che per secoli aveva costituito, come s’è visto, una delle caratteristiche migliori dello Stato sabaudo. Perché se Carlo Felice fu, come è stato detto, l’ultimo vero re piemontese, è anche da dire che della tradizione subalpina egli riprese solo gli elementi più gretti di misoneismo e autoritarismo provincialesco, senza la devozione allo Stato dei vecchi sovrani (ché anzi alle esigenze dello Stato antepose i suoi interessi privati, avanzando sempre nuove pretese nei confronti delle esauste finanze statali) e tanto meno lo spirito militare, la fiera indipendenza in politica estera, la capacità amministrativa che avevano fatto le fortune del vecchio Piemonte. Al contrario si piegò all’influenza austriaca e, abbandonando quella politica di relativa autonomia che aveva pur caratterizzato la fase anteriore al 1821, sollecitò addirittura l’occupazione austriaca come sola garanzia valida contro i sovvertimenti interni» (31-32).

Carlo Felice trasforma l’esercito in una polizia, regime severissimo, si giudicano i soldati attraverso il loro sentimento religioso, influenza dell’Amicizia cattolica (32-33)

«Questa atmosfera opprimente, la cui caratteristica fondamentale era data dalla sfiducia del governo verso tutte le forze vive del paese, ebbe gravi conseguenze nella vita politica e morale del Piemonte. Il fatto che assolutisti e liberali appartenevano in gran parte allo stesso ambiente sociale e spesso alle medesime famiglie, nelle quali accanto a ministri del re si ritrovavano magari dei condannati a morte per atti rivoluzionari (come nel caso del ministro degli esteri marchese di San Marzano e del figlio marchese di Caraglio) aveva lacerato profondamente la società nobiliare piemontese» (33).

«La discorde dans la famille» (33)

Scoraggiamento dei liberali dopo la sconfitta del 1821 e nell’ambiente di Carlo Felice in queste parole del Giovanetti: «Il fatto diede una crudele smentita alle chimere dei costituzionali, che saranno ormai persuasi che il soldato è una macchina, che l’ufficiale calcola il proprio interesse, che il minuto popolo è indifferente a qualunque cambiamento, e che le persone colte e i proprietari sono divisi dagli interessi od hanno in un deciso cimento troppo a perdere per avventurarsi» (34).

Giacomo Giovanetti: «l’Italiano accostumato da secoli a esser cavalcato dal primo venuto, l’Italiano, che da poco tempo ha armi proprie, che non combattè mai per se stesso, non ha e non può avere passione nazionale... non ha nemmeno il coraggio che nasce dal sentimento delle proprie forze perché non le conosce, non sa il modo di attivarle».

Rancori regionali, contro i napoletani, contro i genovesi, «a esponenti del futuro partito liberale come Ilarione Petitti di Roreto la rivoluzione del 1821 appariva non già come "l’opera della nazione, come neanche quella della maggioranza pensante della medesima, ma solo il triste risultato degli oscuri maneggi di una setta scarsa di numero, e di deboli mezzi, aiutata dall’infelice scolaresca che seppe sedurre..."» (34).

«L’esperienza rivoluzionaria aveva confermato la sostanziale impossibilità di condurre un’azione politica in contrasto con la Corona in un paese dove la fedeltà dinastica restava alla base della coscienza nazionale [...] la sola via che restava aperta verso l’avvenire era quella di un lento svolgersi delle forze liberali nell’ambito stesso della tradizione sabauda» (35)