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 2010  maggio 01 Sabato calendario

SPIAGGE E TERRENI, SFIDA SUL «FEDERALISMO DEMANIALE»

Quasi 10 mila terreni, 9.127 fabbricati, 5.050 chilometri di spiagge, 69 laghi naturali per un’estensione di 550 chilometri quadrati, e poi le miniere e i piccoli aeroporti. Beni che oggi appartengono allo Stato e che domani con il federalismo demaniale, prima tappa concreta della "devolution" ormai avviata in Parlamento, potranno essere trasferiti a Regioni, Province, Comuni e alle future Città metropolitane. Gratuitamente, e con un unico scopo, la valorizzazione. Sì, perché tutto quel ben di Dio oggi ha un valore stimato di 3,2 miliardi di euro, ma frutta una miseria: appena 189 milioni l’anno secondo la Ragioneria generale dello Stato.
Qualche esempio? Il demanio marittimo rende allo Stato 97 milioni di euro l’anno, cioè 190 euro per ogni 100 metri di spiaggia, le miniere fruttano appena 347 mila euro l’anno, mentre dai canoni di concessione per l’uso delle acque pubbliche si ricavano 2,7 milioni, meno di quanto si guadagna dalla gestione dei beni confiscati alle mafie (2,8 milioni). E questo succede non solo per incuria o inefficienza. Il fatto è che se lo Stato è il padrone, spesso non ha gli strumenti adatti per far fruttare il suo patrimonio. Torniamo alle spiagge: le Regioni hanno la competenza legislativa sul turismo, ma i canoni demaniali li riscuote lo Stato. Così i Governatori non hanno alcun incentivo a legiferare bene sulla materia. Lo stesso discorso vale per gli immobili. Le caserme in disuso sono state trasferite al demanio dello Stato, ma lo strumento per valorizzarle, trasformandole in alberghi o in centri commerciali, cioè la variante urbanistica, è in mano ai Comuni. E poi c’è la polverizzazione delle competenze, che ad esempio non ha mai reso possibile la navigazione del Po. Eppure alleggerirebbe non poco il traffico al Nord, se si pensa che su una sola chiatta possono starci 80 camion.
Ce n’è abbastanza per cambiare il sistema, anche se il federalismo demaniale approdato in Parlamento con il decreto legislativo del governo, da approvare entro il 21 maggio, e che comunque non contempla in nessun caso la cessione dei beni storici e culturali, lascia indefinite parecchie questioni ed apre una lunga serie di nuovi problemi. Il primo è il criterio con il quale i beni dovranno essere trasferiti, che non è chiaro, ma che rischia di segnare il destino dell’intero processo federalista. Saranno ceduti alle Regioni e da queste alle loro province e comuni, come chiedono i governatori che vogliono imboccare la strada del "regionalismo", oppure partendo dal basso, cioè dai comuni, come vogliono i sindaci che puntano al "municipalismo"?
Il decreto non lo dice. Il testo portato in Parlamento prevede che lo Stato compili un elenco dei beni cedibili, che Regioni ed enti locali scelgano cosa prendersi e che l’attribuzione si faccia considerando le dimensioni territoriali, le funzioni esercitate e la capacità finanziaria degli enti che li domandano. Giustissimo. Non ha senso dare ad un comune di mille abitanti una caserma di 500 mila metri quadri, perché non avrebbe mai le risorse economiche per poterla valorizzare. Questo è un caso-limite, ma la capacità finanziaria di ciascun ente locale è destinata a cambiare, e di parecchio, con il federalismo fiscale e con l’intervento della perequazione statale e regionale. Che tuttavia arriveranno solo in un secondo momento, comunque dopo il federalismo demaniale.
E ancora, cosa succederà al debito pubblico italiano, che è in parte garantito da questi beni di cui si spoglia? Anche se quei 3,2 miliardi rappresentano una minima parte del patrimonio pubblico, iscritto nel bilancio dello Stato per un valore di 49,5 miliardi (ma che a prezzi di mercato ne vale almeno 200), il problema esiste. Finché i beni devoluti dallo Stato restano di proprietà degli enti locali che li riceveranno, in teoria cambia poco. Ma se li vendono? Lo Stato è obbligato a usare i proventi delle sue dismissioni per la riduzione del debito pubblico, ma Regioni, Comuni e Province non hanno questo vincolo. Pare che l’orientamento del governo sia quello di imporre anche a loro la medesima regola. Potrà anche essere così, ma se i beni, una volta valorizzati, vengono conferiti a un fondo immobiliare, dove entrano i privati, che succede?
C’è, poi, un problema di equilibrio. Cedere beni che possano essere messi a frutto è come mettere benzina nel serbatoio di Regioni ed enti locali. Ma non di tutti. Di quei 3,2 miliardi di beni trasferibili, addirittura un quarto sta in un’unica regione, il Lazio (859 milioni). Il Veneto (364 milioni) ne ha più della Lombardia (315) che però ha il doppio degli abitanti. Liguria e Marche hanno quasi la stessa popolazione, ma la prima ha beni demaniali cinque volte superiori alla seconda (184 milioni contro 38).
I problemi da risolvere sono tanti e rilevanti, ma forse non tali da mettere in discussione il progetto. Del resto quei pochi esempi di federalismo demaniale già attuati in Italia funzionano. E non è certo un caso se la provincia autonoma di Trento, proprietaria del tratto dell’Adige che scorre nel suo territorio, abbia il piano di gestione delle acque più avanzato di tutta Europa.
Mario Sensini