Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  maggio 02 Domenica calendario

SUL SUICIDIO DI PIETRINO VANACORE


TARANTO - Si è suicidato a Maruggio, vicino a Taranto, Pietrino Vanacore, il portiere della vicenda del delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù.

Il cadavere di Vanacore è stato trovato in mare intorno alle 13 di oggi: si sarebbe suicidato legandosi una lunga fune ad un piede assicurando l’altra estremità ad un albero sulla scogliera. Poi ha ingerito dell’anticrittogamico che aveva portato con se in una bottiglietta. L’uomo è caduto in acqua in località Torre Ovo, vicino Marina di Maruggio, ad una quarantina di chilometri da Taranto.

Da una prima ispezione sul cadavere di Pietro Vanacore, compiuta dal medico legale, non sono stati riscontrati segni di violenza. L’esame autoptico, che potrebbe tenersi domattina, potrà dare qualche indicazione in più.

Vanacore, dalla metà degli anni Novanta, era tornato a vivere con la moglie nella sua terra, a Monacizzo, che si trova a poca distanza dal luogo nel quale oggi è stato trovato il corpo. Il paese è una frazione del comune di Torricella di poco più di 100 abitanti su una collinetta a 52 metri sul livello del mare, nel Golfo di Taranto. Altra frazione di Torricella è Torre Ovo-Librari-Trullo di Mare, nelle cui acque Vanacore si è suicidato.

L’uomo ha lasciato due biglietti con le stesse parole, uno sul tergicristallo della sua auto e uno all’interno della vettura: "Venti anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio". Sul posto il sostituto procuratore della Repubblica Maurizio Carbone e il medico legale. Sulla vicenda indagano i carabinieri della compagnia di Manduria.


Vanacore fu arrestato il 10 agosto del ’90, con l’accusa di omicidio, tre giorni dopo il delitto. Il 16 giugno ’93 venne prosciolto dal gip Cappiello perché "il fatto non sussiste". La decisione divenne definitiva nel 1995 dopo il ricorso in Cassazione. Dopo l’uscita di scena decise di lasciare Roma. Il 12 marzo avrebbe dovuto deporre alla prossima udienza del processo per l’omicidio della ragazza in cui compare come unico indagato l’ex fidanzato Raniero Busco. Tra i testi citati per quell’udienza c’è anche il figlio di Pietrino Vanacore, Luca. L’ex portiere nel corso della sua deposizione avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere alle domande dei giudici e sarebbe stato assistito da un legale in quanto già indagato in un procedimento connesso.

Poco meno di un anno fa, nel maggio 2009, era stata archiviata una seconda indagine che Pietrino Vanacore aveva subito in relazione all’uccisione di Simonetta Cesaroni. I pm inquirenti (Ilaria Calò e Giovanni Ferrara), nell’ambito dell’indagine su Renato Busco, il 20 ottobre 2008 avevano infatti disposto una perquisizione domiciliare nella casa pugliese di Pietrino Vanacore, perquisizione che non aveva portato a nessun risultato utile.

Pietrino Vanacore "si sentiva braccato, vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero", racconta l’avvocato Antonio De Vita, legale dell’ex portiere di via Poma. "Mio padre è stato condannato senza un processo. Lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi", aggiunge amareggiato Mario Vanacore, figlio di Pietrino. "Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci", ha ribadito l’uomo. "Hanno reso la vita di mio padre un inferno", rincara la dose l’uomo, che vive a Torino e fa il portiere in uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. "Aveva tanti progetti, voleva comperare una casa - ricorda ancora mario Vanacore - ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati".

"Non so come interpretare questo fatto. L’ho saputo 20 minuti dopo che era successo", ha detto l’avvocato Paolo Loria, legale di Raniero Busco. "La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. E sicuramente lui non se l’è sentita di testimoniare - ha aggiunto il penalista - Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perché lui fosse l’autore dell’omicidio, ma perché sapeva. Evidentemente, però, non poteva parlare neanche a distanza di anni. Non se l’è sentita, insomma, di affrontare i giudici, gli avvocati e la testimonianza in aula".

"Ho sentito i familiari di Simonetta. Il primo sentimento che si prova è di dispiacere. La notizia ci ha colpiti sotto il profilo umano, il suicidio è sempre una cosa drammatica", è stato il commento dell’avvocato Lucio Molinaro, legale della famiglia Cesaroni. "Il rancore e la contrarietà di quando ci fu il processo a suo carico tacciono di fronte all’emozione di questa notizia", ha poi aggiunto il legale, spiegando che "domani incontrerò la madre e la sorella di Simonetta, proprio perchè la notizia ci ha colpito molto".

Umana comprensione per la tragica fine di Pietrino Vanacore è stata espressa oggi da Italo Ormanni che prima di diventare responsabile del dipartimento Giustizia come procuratore aggiunto della capitale si era ampiamente occupato della vicenda di via Poma. "Il suicidio è un fatto che intristisce e addolora - ha detto Ormanni - ma i vent’anni di sospetti ai quali allude Vanacore è frutto di una valutazione personalissima". Ormanni ha ricordato che quando le indagini sul caso, che non era mai stato chiuso, furono riaperte, anche Vanacore fu tra gli indagati. Ma non è emerso nulla nei suoi riguardi. Dopo le perizie sulle tracce di saliva rilevate sul corpetto della Cesaroni e la compatibilità dell’impronta del morso sul seno della vittima con l’arcata dentale di Raniero Busco "tutti fummo sicuri di non avere alcun dubbio sulle responsabilità".

VANACORE Pietro. Accusato del delitto della ventunenne Simonetta Cesaroni (29 coltellate), avvenuto a Roma in via Poma (n. 2 c, scala B, dove lavorava come portiere) il 7 agosto 1990, fu arrestato appena tre giorni dopo l’assassinio; secondo l’accusa era innamorato della vittima, che aveva ucciso perché respinto. Rimesso in libertà dopo venti giorni di carcere, fu poi scagionato (il 16 giugno 93 il Giudice Antonio Cappiello dichiarò l’improcedibilità nei suoi confronti per la mancanza assoluta di prove. Il vero colpevole non è mai stato trovato, vedi anche VALLE Federico). «Io facevo il portiere, stavo bene. Poi, di colpo, un pomeriggio, è scoppiato l’inferno» (’la Repubblica” 6/8/2000).«Nessuno è riuscito a conoscerlo. C’era sempre Vanacore e il suo doppio: ”il grande bugiardo”, come ebbe a definirlo il questore Improta nel suo famoso appello televisivo; o un innocente che aveva fatto tutto ciò che era umanamente possibile per essere scambiato per colpevole, come arrivò ad ipotizzare l’allora capo della Mobile, Nicola Cavaliere. Un uomo mite, triste, taciturno, appassionato del suo lavoro, come hanno testimoniato i suoi condomini; un animale a sangue freddo capace di ammazzare gattini appena nati sbattendoli contro il muro, come affermò un suo ex collega. La risposta la conosce solo lui» (’la Repubblica” 31/1/1995).

*******

DA CORRIERE.IT 09/03/2010

Si è tolto la vita Pietrino Vanacore. Fu il portiere dello stabile di via Poma a Roma, dove il 7 agosto 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. L’uomo si è suicidato a Marina di Torricella , in località Torre Ovo, in provincia di Taranto, nella notte tra lunedì e martedì. Si è tolto la vita legandosi una lunga fune al collo e lasciandosi andare in un corso d’acqua in località Torre Ovo di Torricella, nel tarantino.

BIGLIETTI IN AUTO- Vanacore ha lasciato almeno due o tre biglietti di addio nella sua auto parcheggiata a poca distanza dal luogo del suo suicidio: uno sul tergicristallo dell’auto e uno all’interno della vettura. In tutti, secondo quanto si è appreso da fonti investigative, l’ex portiere di via Poma avrebbe scritto più o meno lo stesso messaggio: «20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio». Sul posto, si trovano i carabinieri che stanno aspettando il magistrato di turno Maurizio Carbone della Procura di Taranto. L’automobile dell’ex portiere è una Citroen Ax di colore grigio. Il corpo dell’uomo è ancora in acqua, affiorante. visibile una fune che per ora non si sa a che cosa sia legata. S’intravede che è intrecciata ad una caviglia e anche attorno al collo. Il corpo - a quanto viene reso noto - è stato trovato da amici: non si sa se il ritrovamento sia stato casuale o fatto da persone che erano già alla sua ricerca.

IL PROCESSO - Avrebbe dovuto testimoniare venerdì prossimo , il 12 marzo, nell’ambito del processo a Raniero Busco, accusato di aver ucciso l’ex fidanzata Simonetta Cesaroni. La ragazza, 21enne romana, fu trovata morta con 29 coltellate il 7 agosto del 1990 in un ufficio in Via Poma, nel quartiere Prati a Roma. Nell’udienza di venerdì è prevista la testimonianza, davanti ai giudici della III Corte d’Assise presieduta da Evelina Canale, anche dell’ex datore di lavoro della ragazza Salvatore Volponi, del figlio Luca, di Giuseppa De Luca, moglie di Vanacore, e del figlio dei due portieri, Mario, nonché di due esperti della polizia scientifica che esaminarono la scena del crimine nell’imminenza del fatto. Nell’udienza di venerdì avrebbe potuto scegliere di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del pm Ilaria Calò in quanto indagato in procedimento connesso. Ciò in quanto fu in passato coinvolto in questa stessa inchiesta.

IL LEGALE DI BUSCO - «La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, e non perchè fosse l’autore dell’omicidio, ma perchè sapeva». Così l’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco, sotto processo per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, commenta la notizia del suicidio dell’ex portiere di via Poma. «Non so come interpretare questo fatto - ha aggiunto - l’ho saputo 20 minuti dopo che era successo».

L’AVVOCATO DEI CESARONI - L’avvocato Lucio Molinaro, legale della famiglia Cesaroni, chiede tempo prima di commentare la notizia della morte dell’ex portiere dello stabile di via Poma: «Aspetto di parlare con il magistrato per avere una idea più chiara di quanto successo. Al momento sto seguendo le notizie di stampa. Personalmente cerco di essere prudente per capire come deve essere interpretata la notizia del suicidio di Vanacore. Mi dispiace ovviamente per il fatto umano in sé ma occorre capire che ricaduta avrà sul processo in corso questa vicenda».

TESTIMONE - Fu lui a trovare il corpo senza vita della Cesaroni. Il 10 agosto del 1990 infatti Vanacore fu fermato dalla polizia per poi tornare in libertà il 30 agosto successivo. Il 26 aprile del 1991 il gip Giuseppe Pizzuti accolse la richiesta di del pm Pietro Catalani e archiviò gli atti riguardanti Vanacore e altre cinque persone. Il 30 gennaio del 1995 il portiere uscì definitivamente di scena: la Cassazione confermò infatti la decisione della Corte d’appello di non rinviarlo a giudizio con l’accusa di favoreggiamento. Allora decise di lasciare Roma e tornare nella sua terra d’origine, a Monacizzo, poco distante da dove è stato trovato il corpo. Era pugliese, nato a Sava, nell’entroterra tarantino.

L’ALTRA INDAGINE - Una seconda indagine su Vanacore era stata archiviata poco meno di un anno fa, nel maggio 2009. I pm inquirenti (Ilaria Calò e Giovanni Ferrara), nell’ambito delle indagini su Renato Busco, ex fidanzato della giovane donna uccisa, il 20 ottobre 2008 avevano infatti disposto una perquisizione domiciliare nella casa pugliese di Pietrino Vanacore, perquisizione che non aveva portato a nessun risultato utile.

(Antonio Castaldo, Corrier.it 9 marzo 2010)

***********
DA CORRIERE.IT 09/03/2010

Delitto Cesaroni, 20 anni di mistero
ROMA - Sono passate da poco le 20,30 del 7 agosto 1990. Paola Cesaroni comincia ad essere preoccupata del ritardo di Simonetta, la sorella minore, che lavora nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù, in via Carlo Poma 2, nel quartiere Prati. Simonetta, che ha 21 anni, di solito torna a casa verso le 20. La ragazza, era dipendente di Salvatore Volponi che però le aveva chiesto se fosse stata disponibile ad andare a lavorare quel pomeriggio nello studio dell’associazione ostelli della gioventù (Aiag) clienti del suo ufficio. Motivo: tenere la contabilità, l’ufficio era chiuso e completamente deserto. Con il fidanzato Antonello Baroni, Paola fa inutilmente la strada fino alla stazione della metro dove lei e Antonello avevano accompagnato Simonetta, poi chiama Salvatore Volponi, il datore di lavoro della sorella. Il gruppo va in via Poma e costringe Giuseppa De Luca, moglie del portiere Pietrino Vanacore, ad aprire la porta.

29 COLTELLATE -Sono le 23,30 circa: nell’ultima stanza c’è il cadavere seminudo di Simonetta, uccisa da 29 coltellate, probabilmente inferte con un tagliacarte. Il corpo della ragazza seminudo (con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti, il top arrotolato sul collo. Non ha le mutandine, porta addosso ancora i calzini bianchi corti, mentre le scarpe da ginnastica sono riposte ordinatamente vicino la porta) . Le scarpe sono riposte ordinatamente in un angolo. Gli altri vestiti (i fuseaux bianchi e la camicetta) sono scomparsi. In uno stanzino ci sono due stracci strizzati, forse usati dall’assassino per ripulire la stanza. Le 29 coltellate sono state vibrate un po’ in tutte le parti del corpo, e questo contrasta con l’ipotesi del raptus di un maniaco, che colpisce in un corpo a corpo. Prima di morire la ragazza si sarebbe difesa con tutte le sue forze prima di soccombere al suo assassino. L’ ora della morte sarebbe collocabile tra le 18 e le 18.30.

LE PRIME INDAGINI - Tra la notte del 7 agosto e la mattina successiva, la polizia perquisisce l’intero palazzo di via Poma alla ricerca degli indumenti di Simonetta Cesaroni ma non trovano nulla. Si ascoltano i testimoni, pochi perchè molti sono già in vacanza. Dalle testimonianze si deduce che Simonetta è sola il 7 agosto. Probabilmente l’assassino della ragazza avrebbe tentato di violentarla, ma all’atto non è riuscito ad avere un’erezione e per questo, forse, preso da un raptus di follia ha sfogato la sua rabbia colpendo Simonetta con 29 pugnalate. Resosi conto dell’accaduto, ha tentato di pulire l’appartamento dal sangue e di riordinare l’ufficio per poi far sparire il corpo. Ma qualcosa o qualcuno lo avrebbe disturbato. I sospetti fin da subito cadono su Pietrino Vanacore (lo stabile èmolto grande e ha quattro portieri: Vanacore, però, non era con gli altri colleghi giù nel cortile nell’orario che va dalle 17.30 alle 18.30, cioè l’orario in cui Simonetta sarebbe stata uccisa. Poi gli investigatori trovano uno scontrino sospetto: quel pomeriggio il portiere ha comprato dal ferramenta, alle 17.25, un frullino. Non solo l’uomo che in quel periodo prestava assistenza tutte le sere in casa dell’anziano architetto Cesare Valle, afferma che alle 22.30 si è diretto a casa dell’uomo che abita in un appartamento alcuni piani più su dell’ufficio. Ma il suo racconto non collima con quello di Cesare Valle che sposta l’orario di arrivo di Vanacore alle 23.00. Gli investigatori sospettano che in quei 30 minuti il portiere si sarebbe affaccendato a pulire il luogo del delitto. Così gli indizi si stringono attorno a Pietrino Vanacore. Vengono trovati un paio di pantaloni con evidenti tracce di sangue. Nella scala B quel pomeriggio del 7 agosto 1990 ci sono solo due persone, Cesare Valle e Simonetta Cesaroni. I testimoni ascoltati dichiarano che nessun estraneo è stato visto entrare. E poi c’è il fatto che Vanacore si era assentato dalle 17.30 alle 18.30, orario dell’omicidio. Magistrato della procura e investigatori sono ormai certi: la soluzione dell’omicidio è ormai a un passo. Pietrino Vanacore viene quindi arrestato e per 26 giorni rimane in carcere con l’accusa di omicidio volontario. A scagionare Vanacore sarà però un esame approfondito sulle tracce di sangue sui pantaloni che risultano essere dello stesso portiere, che soffre di emorroidi. Inoltre Vanacore ha indossato gli stessi abiti per tre giorni di fila - dal 6 agosto all’8 agosto 1990 - ed su questi indumenti non è stata trovata traccia di sangue di Simonetta Cesaroni. L’assassino non può essere il portiere.

PERQUISIZIONE - Nel maggio 2009, una seconda indagine su Pietrino Vanacore era stata archiviata. I pm inquirenti (Ilaria Calò e Giovanni Ferrara), nell’ambito delle nuove indagini su Renato Busco, ex fidanzato della giovane donna uccisa, il 20 ottobre 2008 avevano infatti disposto una perquisizione domiciliare nella casa pugliese di Pietrino Vanacore, perquisizione che non aveva portato a nessun risultato utile. Vanacore, dalla metà degli anni ’90, era tornato a vivere con la moglie nella sua terra, a Monacizzo, dove appunto fu compiuta la perquisizione. Monacizzo - che si trova a poca distanza dal luogo nel quale è stato trovato il corpo - è una frazione del comune di Torricella di poco più di 100 abitanti su una collinetta a 52 metri sul livello del mare, nel Golfo di Taranto. Altra frazione di Torricella è Torre Ovo-Librari-Trullo di Mare, nelle cui acque Vanacore si è suicidato.

BUSCO - Il delitto di Simonetta sembra destinato a non avere un colpevole. Rientra in scena l’ex fidanzato, accusato da una traccia di saliva su un reggiseno di Simonetta, trovata grazie a indagini sul Dna. Il processo a Busco si è aperto il 3 febbraio 2010, l’uomo si è sempre dichiarato innocente.

*********

VANACORE; 20 ANNI DI MISTERO -
(Ansa) - Ecco una cronologia delle principali tappe dell’inchiesta sull’ omicidio di via Poma, a Roma: 7 agosto 1990 - In via Poma, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù, è uccisa Simonetta Cesaroni. Il cadavere è trovato per l’insistenza della sorella Paola, preoccupata per il suo ritardo. Simonetta è nuda, ma non ha subito violenza carnale. Il cadavere è stato trafitto con 29 colpi di tagliacarte, vibrati su quasi tutte le parti del corpo. 10 agosto 1990 - Fermato Pietrino Vanacore, uno dei portieri dello stabile di via Poma, che sarà scarcerato il 30 agosto. 8 ottobre 1990 - Consegnati i risultati dell’autopsia. Il corpo ha una lesione ad un’arcata sopracciliare e diverse ecchimosi.
La morte, avvenuta tra le 18 e le 18,30, è dovuta alle coltellate, vibrate sul corpo senza vestiti. 16 novembre 1990 - Il pm Catalani chiede l’archiviazione della posizione di Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta. 26 aprile 1991 - Il gip Giuseppe Pizzuti accoglie la richiesta di Catalani e archivia gli atti riguardanti Pietrino Vanacore e altre cinque persone. Il fascicolo resta aperto contro ignoti. 3 aprile 1992 - Avviso di garanzia a Federico Valle, nipote dell’arch. Cesare Valle, che abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto ha ospitato Vanacore. Valle è coinvolto dalle dichiarazioni dell’austriaco Roland Voller. 16 giugno 1993 -
Il gip Antonio Cappiello proscioglie Valle per non aver commesso il fatto e Vanacore perché il fatto non sussiste. 30 gennaio 1995 - Escono di scena definitivamente Valle e Vanacore: la Cassazione conferma infatti la decisione della Corte d’appello di non rinviare a giudizio i due indiziati. 20 agosto 2005 - Claudio Cesaroni, padre di Simonetta, muore per una pancreatite. 12 gennaio 2007 - La trasmissione Matrix rivela che dalle analisi del Ris di Parma sarebbe emerso che il dna trovato sugli indumenti di Simonetta è dell’ex fidanzato Raniero Busco. Simonetta inoltre non sarebbe morta alle 18, ma alle 16.
Il pm Cavallone decide di querelare Mentana per le rivelazioni. 6 settembre 2007 - Busco è iscritto dalla procura di Roma sul registro degli indagati per omicidio volontario. 28 maggio 2009 - La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di Raniero Busco. 3 febbraio 2010 - In Corte d’assise comincia il processo. Imputato per omicidio volontario Raniero Busco.

********

BUSCO Raniero Roma 1965 (~) Fidanzato di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa in un ufficio di via Poma (Roma) il 7 agosto 1990, nel novembre 2009 è stato rinviato a giudizio con l’accusa di essere l’assassino • «Via Poma Ultimo Atto si aggroviglia attorno alla storia di un Alibi prima non richiesto, poi richiesto, quindi smentito e infine fornito di nuovo, ma ormai sulla base di ricordi così lontani da risultare, almeno agli occhi degli investigatori, poco convincente. l’alibi principe, se vogliamo essere onesti: dov’era Raniero Busco quando Simonetta fu uccisa? Dov’era quest’uomo, che ormai ha superato la quarantina e ha messo su famiglia, nel pomeriggio del 7 agosto 1990? Ma nessuno sentì la necessità di chiederglielo, come si deduce dai verbali di ben due deposizioni, la prima l’8 agosto alle 6 e mezza del mattino -quindi a neanche ventiquatt’ore dal delitto- e la seconda il 10 settembre di quelle stesso anno ”alle ore 11,25”, in tutte e due le occasioni davanti agli uomini della Squadra Mobile di Roma, V sezione. L’8 agosto gli fecero un sacco di domande sullo stato della sua relazione con Simonetta e lui si dilungò con tutta una serie di considerazioni che avrebbero fatto la storia dei talk show televisivi. tipo quella: ”...Voglio precisare che il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei...”. Un mese dopo, Raniero Busco sfiorò appena la questione cruciale che poi l’avrebbe portato a processo, raccontando che la sera del 6 agosto, il giorno prima dell’omicidio, ”ho lavorato fino alle 7 del giorno dopo”, come operaio all’Alitalia, ”dopodiche sono andato a casa dove sono rimasto a dormire fino all’ora di pranzo”. Ora voi vi aspettereste che qualcuno gli abbia chiesto: ”E dopo l’ora di pranzo che hai fatto? Quali sono stati i tuoi movimenti durante quel pomeriggio?”. Niente, la deposizione fila via liscia come l’olio. Prima di aprire lo scenario che riporta Raniero Busco alla ribalta, bisogna solo contestualizzare queste due deposizioni: probabilmente nessuno gli chiese un alibi perché fra gli investigatori, in quei giorni, ben altre erano le convizioni, ben altre piste sembravano degne di essere seguite, perché Raniero Busco a tutti sembrava semplicemente un innocente a tutto tondo. Debbono passare non cinque, non dieci, ma addirittura sedici anni, perché al termine di un carosello estenuante di indagini fallite, si torni a parlare di Raniero Busco. A quel punto l’alibi glielo chiedono eccome. E lui tira in ballo un suo amico, un Simone Palombi che il pomeriggio del 7 agosto 1990 dovrebbe averlo trascorso tutto con lui a riparare un motorino. Mai ricordo risultò così fragile. Bastò ripescare fra le carte un’altra delle deposizioni rese quell’8 di agosto, ”alle ore 17,00”, quindi neanche dodici ore dopo il primo verbale di Busco, per scoprire che Simone Palombi era stato da tutt’altra parte: ”Unitamente ai miei genitori mi sono recato a Frosinjone in quanto mia zia Palombi Giselda stava male. Verso le ore 19,00, sempre insieme ai miei genitori, ho fatto rientro a casa. Verso le 19.45 sono uscito dalla mia abitazione e mi sono recato al bar dei portici ove ho incontrato il mio amico Busco Raniero insieme ad altri amici comuni”. Occhio all’orario, 19,45: a quel punto Busco poteva anche essere andato in via Poma e tornato. La frittata era fatta. A nulla [...] è valso che Raniero aggiustasse il tiro. Intervista con Oggi [...]: ”Io era a casa quel pomeriggio, ho sistemato sulla rampa la Panda azzurra di mio fratello Paolo per ripararla. Alcune vicine lo ricordano. C’era anche mia madre... Ho parlato del motorino di Simone solo perché non riuscivo a ricordarmi, a distanza di tanto tempo, cosa avessi riparato quel pomeriggio”. Nella stessa intervista, Raniero Busco dice dell’altro. Sostiene che a botta calda lui fornì l’alibi giusto, ma che non c’è traccia nel verbale -come abbiamo visto all’inizio- di quelle sue dichiarazioni. ”Non ricordavo più... ho chiesto di cercare nelle mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quella risposta, quell’alibi”» (Nino Cirillo, ”Il Messaggero” 11/11/2009).

*********

VALLE Federico. Noto per il coinvolgimento nelle indagini sul cosiddetto delitto di via Poma avvenuto a Roma il 7 agosto 1990, vittima Simonetta Cesaroni (4 novembre 1969), colpita da 21 coltellate. Nipote dell’ingegnere Cesare Valle, che abitava al quinto piano dello stesso palazzo, figlio dell’avvocato Raniero, anche lui con studio nel palazzo, secondo l’accusa aveva ucciso causa la relazione della ragazza con il genitore. I sospetti furono rafforzati dall’intervento del commerciante austriaco Roland Voller, che nel 92 disse agli investigatori: «Sono amico della madre di Federico Valle, che la sera del delitto mi telefonò̀ dicendomi che il figlio era tornato da via Poma insanguinato e ferito». Il 16 giugno 93 il Giudice Antonio Cappiello dichiarò l’improcedibilità nei suoi confronti per mancanza assoluta di prove (vedi anche VANACORE Pietro).

*********

La Gazzetta dello Sport
Anno III, numero 999
10 novembre 2009

Fu il fidanzato a uccidere la ragazza di via Poma? -


Una ventina d’anni fa (il 7 agosto 1990), al terzo piano di via Poma 2, in Roma, riverso sul pavimento di un ufficio intestato all’Associazione degli ostelli della gioventù, venne trovato il cadavere di Simonetta Cesaroni ( nella foto Proto ), 21 anni, 29 coltellate in corpo, addosso appena qualche capo di biancheria intima. Erano le 23.30. La sorella Paola, non vedendo Simonetta tornare a casa, aveva lanciato l’allarme. Cominciò allora un’indagine divenuta cele­bre per l’approssimazione con cui fu condotta e che per anni e anni non ha portato da nessuna parte. L’unico sospettato, mandato libero per assoluta mancanza di indizi, fu il figlio di un avvocato che aveva lo studio nel palazzo. Costui avrebbe ucciso perché geloso di una presunta relazione tra Simonetta e suo padre. Questo padre si chiamava Raniero. E, guarda caso, oggi un pubblico ministero e un giudice per le indagini preliminari – tutti e due donne – pensano che l’assassino si chiami davvero Raniero.


Non quel Raniero lì, però.

No, si tratta di Raniero Busco, 44 anni, oggi meccanico all’ae­roporto di Fiumicino, sposato e padre di due figlie. Il caso è stato riaperto un paio d’anni fa: i magistrati hanno pensato che con le nuove tecniche investigative (tracce di dna, eccetera), passando al setaccio i vec­chi reperti, forse si sarebbe tro­vato qualcosa. E in effetti, sul reggiseno di Simonetta c’era una traccia di saliva. Analizza­ta, risultò compatibile con quella di Busco. La cui arcata dentaria oltre tutto coincide­va con quella rilevabile dal petto della vittima, dove era ben visibile il segno di un morso. All’epoca del delitto (7 agosto 1990) erano state prese in considerazione, come potenziali assassini, 31 persone. Di queste, trenta risultarono del tut­to incompatibili con le nuove tracce genetiche analizzate dal Ris. Busco invece era com­patibile.


Tracce sue o solo compatibili con lui?

Su questa differenza, che non ho bisogno di spiegare, si giocherà gran parte della partita processuale, il cui inizio è pre­visto per il prossimo 3 febbraio davanti alla Corte d’Assise di Roma. Per quello che ho capito fino a questo momento, la certezza matematica di una corrispondenza assoluta (e quindi inequivocabile) non si raggiunge praticamente mai. Per darle un’idea, ecco la perizia dei consulenti Vincenzo Pascali, Marco Pizzamiglio e Luciano Garofalo (Garofalo è quello del caso Cogne, ci ha scritto un libro sopra adesso) relativa a una macchia di san­gue trovata sullo stipite della porta di via Poma: «La traccia rossastra sul tassello di legno è riconducibile a sangue. La quantità di materiale genetico estrapolata dalla medesima è risultata estremamente esi­gua. Le analisi della traccia ematica hanno consentito di estrapolare un assetto genotipico complesso, in cui la com­ponente maggioritaria è costituita dalla vittima, in associa­zione ad una componente lar­gamente minoritaria ricondu­cibile a materiale genetico ma­schile. La valutazione globale dei dati ottenuti concorda con quanto affermato nella relazio­ne degli esperti spagnoli, il che non permette di escludere né di confermare la presenza di materiale genetico di Ranie­ro Busco, nel profilo comples­so estrapolato dalla macchia di sangue in reperto. Lo stesso assetto genotipico complesso è stato confrontato con i profi­li genici di tutti gli altri sogget­ti precedentemente considera­ti nell’ambito dello stesso pro­cesso, escludendo qualsivo­glia compatibilità».


Cioè, non dicono senz’altro che è sua, dicono che lui è l’unico compatibile con la componente maschile del reperto. Basta questo?

Decideranno i giudici. In base alle notizie fornite fino ad ora dalla Procura, neanche l’alibi di Busco regge: aveva detto che durante l’ora del delitto stava con un amico e questo amico ha negato.


Il movente?

Il movente ci sarebbe. I due liti­gavano continuamente ed era­no addirittura sul punto di la­sciarsi. Però: Busco si è sotto­posto volontariamente a tutti gli esami e, se fosse colpevole, la cosa risulterebbe parecchio stravagante. Ha poi ammesso di aver visto Simonetta il gior­no prima. Sono così strane le tracce di saliva sul reggiseno, dato che i due stavano comun­que ancora insieme? E anche il morso sul petto è così fuori dalla norma?


Gli inquirenti pensano che l’abbia morsa mentre le dava 29 coltellate?

Non sembra un gesto così natu­rale. E se l’ha morsa il giorno prima, magari per passione, la circostanza è irrilevante ai fini dell’individuazione dell’assas­sino. Anche la questione del­l’arcata dentaria non è così ov­via come sembra: in 19 e passa anni, la morfologia dell’arcata si può modificare.

**********

SIMONETTA, LA RABBIA PER RANIERO: «MI USA, POTREBBE MALTRATTARMI» - IL MESSAGGERO 17/02/2010 -

ROMA - un po’ come nel libro ”Amabili resti”, dove una ragazzina uccisa da un serial killer diventa spettatrice della sua morte, delle indagini, della scoperta dell’assassino. Nell’aula bunker di Rebibbia ieri c’era Simonetta Cesaroni, la sua vita, la famiglia, le abitudini e i sogni. C’era la mamma Anna Di Gianbattista che parlava di lei quasi al presente, come se vent’anni non fossero passati. « sempre stata una ragazza molto rispettosa, salutava tutti», risponde quasi piccata alle domande insistenti dell’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco. Era attenta all’igiene? Si cambiava gli indumenti intimi? Cose troppo private, personali. Mamma Anna non vorrebbe riferire questi particolari della figlia, ma sa che è necessario, perché è proprio su un corpetto e un reggiseno dove è stato trovato il dna dell’indagato, che si fonda buona parte dell’impianto accusatorio. «Io so solo - replica - che non facevo altro che lavare panni. Alle mie figlie dicevo sempre: ”se continuate a lavarvi così, qualche giorno vi togliete la pelle”. sicura che se l’indumento indossato da Simonetta, al momento in cui è stato uccisa, non fosse più che pulito, lei non lo avrebbe mai messo».
I ricordi vanno alla sera del 7 agosto del ”90 quando il ritardo della più giovane delle figlie Cesaroni si è fatto eccessivo. Non arrivavano telefonate, gli amici non l’avevano vista, anche se aveva detto che sarebbe passata a salutarli, perché il giorno dopo dovevano partire per la Sardegna. Sono ore di ansia, di ricerche. Inutili. Fino all’arrivo della sorella Paola in via Poma 2, in compagnia del fidanzato Antonello Barone, di Salvatore e Luca Volponi, uno dei datori di lavoro della ragazza e di suo figlio. in quel momento che le stranezze di questa storia cominciano a verificarsi. Sembra che tutti i personaggi, finiti più o meno sotto accusa nelle prime fasi delle indagini, abbiano qualcosa da nascondere. Se ne accorge Paola, se ne accorge Antonello. il vecchio giallo che ritorna e mostra ancora tutte le sue lacune.
Ma il pm Ilaria Calò vuole verificare alcuni particolari, e insiste sui rapporti di Simonetta con Raniero e sul fatto che la vittima poteva aver detto all’indagato di essere incinta. intorno a questo possibile movente che va avanti l’interrogatorio di mamma Anna. Poi, la donna, quasi manifestando un involontario rancore nei confronti di chi ha comunque fatto soffrire la figlia, a prescindere che si tratti dell’assassino o meno, descrive Raniero come una persona che aveva fatto soffrire tanto la sua Simonetta. «Lei era innamorata, lui no - racconta - Lo so perché sentivo che si lamentava con le amiche di come lui la trattava. All’amica Donatella è arrivata a dire: ”Io non sono niente per lui, mi maltratterebbe se potesse. E poi vede la sua ex e anche altre ragazze. Ne sono certa”. Tant’è che un giorno le ho chiesto: ”Ma non è che ti picchia?” E lei: «No, mamma, assolutamente, su quello stai tranquilla». Cercava l’amore la ragazza di via Poma, ha trovato la morte.
La sorella Paola lo conosceva appena questo fidanzato. Si erano scambiati solo dei saluti nelle occasioni in cui accompagnava Simonetta. stata lei a trovare il cadavere nell’ufficio delll’Associazione ostelli della gioventù, e non riesce a togliersi dalle orecchie il momento in cui il datore di lavoro chiama Antonello (suo fidanzato dell’epoca e ancora oggi) allarmato per quanto ha visto. Il corpo della sorella è per terra, in una stanza dell’ufficio che non è quella dove è solita lavorare. Sapevano poco dell’attività della vittima, i suoi parenti. Così come non sapevano dove si trovasse la sede. Sin dal primo momento, però, Paola ritiene che il comportamento di Salvatore Volponi sia eccessivo. «Era più agitato di noi - dice - Mi ha detto di non sapere neanche lui l’indirizzo preciso dell’ufficio, di non esserci mai andato. E lo cerca sfogliando pezzetti di carta e facendo dei giri assurdi. Noi lì temevamo per la vita di mia sorella e lui era come se ci volesse far perdere tempo. una sensazione, l’ho riferita sin dalle prime ore dopo il delitto, soltanto quello. Però l’ho notata. Così come mi è sembrato assurdo - aggiunge - quando Giuseppa De Luca, moglie del portiere Pietrino Vanacore, dopo averci accompagnato e aver aperto la porta dell’ufficio, quando sono arrivati i poliziotti, ha negato di avere le chiavi. Le teneva in mano e negava. L’ho detto agli agenti e gliele hanno dovute strappare di mano».
Sul rapporto tra la sorella e Raniero ritiene anche lei che fosse sbilanciato. «Lui non l’amava, lei sì - ricorda - avevano avuto un rapporto sabato, poi la domenica lei ha avuto una perdita ematica e ha pensato che forse potesse essere il ciclo che arrivava prima del previsto. Si era fatta prescrivere le pillole anticoncezionali e aspettava il momento giusto per prenderle». Il difensore dell’indagato insiste: «Non era un rapporto profondo, erano ragazzi e Raniero non era innamorato di Simonetta. Lei si aspettava cose che lui non voleva darle». Gli avvocati Massimo Lauro e Federica Mondani che, insieme con il collega Lucio Molinaro assistono la famiglia della vittima, hanno soprattutto la voglia di ”proteggere” queste due donne che dopo la morte di papà Cesaroni sono rimaste sole a cercare la verità. «Quando è stato grande il dolore provato e quanto via ha danneggiate nella vita?» chiedono. «Un danno enorme, un dolore che non passa».

(Cristina Mangani, il Messaggero, 17/2/2010)


***********

DELITTO DI VIA POMA, SIMONETTA CESARONI (schedone con pezzi del Messaggero) - FATTA L’11/11/2009

Busco, quell’alibi cambiato due volte: «Ero con Simone. No, ero a casa» -

Via Poma Ultimo Atto si aggroviglia attorno alla storia di un Alibi prima non richiesto, poi richiesto, quindi smentito e infine fornito di nuovo, ma ormai sulla base di ricordi così lontani da risultare, almeno agli occhi degli investigatori, poco convincente.

E’ l’alibi principe, se vogliamo essere onesti: dov’era Raniero Busco quando Simonetta fu uccisa? Dov’era quest’uomo, che ormai ha superato la quarantina e ha messo su famiglia, nel pomeriggio del 7 agosto 1990? Ma nessuno sentì la necessità di chiederglielo, come si deduce dai verbali di ben due deposizioni, la prima l’8 agosto alle 6 e mezza del mattino -quindi a neanche ventiquatt’ore dal delitto- e la seconda il 10 settembre di quelle stesso anno «alle ore 11,25», in tutte e due le occasioni davanti agli uomini della Squadra Mobile di Roma, V sezione.

L’8 agosto gli fecero un sacco di domande sullo stato della sua relazione con Simonetta e lui si dilungò con tutta una serie di considerazioni che avrebbero fatto la storia dei talk show televisivi. tipo quella: «...Voglio precisare che il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei...».

Un mese dopo, Raniero Busco sfiorò appena la questione cruciale che poi l’avrebbe portato a processo, raccontando che la sera del 6 agosto, il giorno prima dell’omicidio, «ho lavorato fino alle 7 del giorno dopo», come operaio all’Alitalia, «dopodiche sono andato a casa dove sono rimasto a dormire fino all’ora di pranzo». Ora voi vi aspettereste che qualcuno gli abbia chiesto: «E dopo l’ora di pranzo che hai fatto? Quali sono stati i tuoi movimenti durante quel pomeriggio?». Niente, la deposizione fila via liscia come l’olio.

Prima di aprire lo scenario che riporta Raniero Busco alla ribalta, bisogna solo contestualizzare queste due deposizioni: probabilmente nessuno gli chiese un alibi perché fra gli investigatori, in quei giorni, ben altre erano le convizioni, ben altre piste sembravano degne di essere seguite, perché Raniero Busco a tutti sembrava semplicemente un innocente a tutto tondo.

Debbono passare non cinque, non dieci, ma addirittura sedici anni, perché al termine di un carosello estenuante di indagini fallite, si torni a parlare di Raniero Busco. A quel punto l’alibi glielo chiedono eccome. E lui tira in ballo un suo amico, un Simone Palombi che il pomeriggio del 7 agosto 1990 dovrebbe averlo trascorso tutto con lui a riparare un motorino. Mai ricordo risultò così fragile.

Bastò ripescare fra le carte un’altra delle deposizioni rese quell’8 di agosto, «alle ore 17,00», quindi neanche dodici ore dopo il primo verbale di Busco, per scoprire che Simone Palombi era stato da tutt’altra parte: «Unitamente ai miei genitori mi sono recato a Frosinjone in quanto mia zia Palombi Giselda stava male. Verso le ore 19,00, sempre insieme ai miei genitori, ho fatto rientro a casa. Verso le 19.45 sono uscito dalla mia abitazione e mi sono recato al bar dei portici ove ho incontrato il mio amico Busco Raniero insieme ad altri amici comuni». Occhio all’orario, 19,45: a quel punto Busco poteva anche essere andato in via Poma e tornato.

La frittata era fatta. A nulla in questi tre anni è valso che Raniero aggiustasse il tiro. Intervista con Oggi di qualche mese fa: «Io era a casa quel pomeriggio, ho sistemato sulla rampa la Panda azzurra di mio fratello Paolo per ripararla. Alcune vicine lo ricordano. C’era anche mia madre...Ho parlato del motorino di Simone solo perché non riuscivo a ricordarmi, a distanza di tanto tempo, cosa avessi riparato quel pomeriggio».
Nella stessa intervista, Raniero Busco dice dell’altro. Sostiene che a botta calda lui fornì l’alibi giusto, ma che non c’è traccia nel verbale -come abbiamo visto all’inizio- di quelle sue dichiarazioni. «Non ricordavo più... ho chiesto di cercare nelle mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quella risposta, quell’alibi».

(Nino Cirillo, Il Messaggero 11/11/09)

______________________________________

«Credo in lui, non smetterò mai di farlo: è innocente» -

«La nostra forza è quella dell’innocenza. Mio marito non c’entra niente con il delitto di via Poma». Roberta Milletari, lo ripete più volte, non ha alcun dubbio sull’innocenza del marito, gli è sempre stata accanto e ora più che mai non lo abbandonerà. «Credo in lui, e non smetterò mai di farlo. Sono serena, perché è innocente. Delusa però da tutto questo. Aspetteremo il 3 febbraio».

Raniero Busco, oggi 44enne, è sposato con Roberta da undici anni, ha due figli, fa il meccanico per Adr a Fiumicino, e una vita serena fino a qualche anno fa (quando fu iscritto nel registro degli indagati). Busco è l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate nell’ufficio dove lavorava. Il 3 febbraio si troverà davanti alla III Corte d’Assise di Roma a rispondere di omicidio volontario, e la storia di questo efferato omicidio arriverà per la prima volta in un’aula giudiziaria.

«Ha già sofferto molto per la morte di Simonetta, ma oggi quel ragazzo di vent’anni fa non c’è più - aggiunge senza esitazione la moglie - Ora c’è un uomo che si è ricostruito una vita, una famiglia e che vuole andare avanti per la sua strada, come tutte le persone normali». Raniero Busco finì al centro dell’inchiesta a 17 anni dal delitto. Quando fu scoperta una traccia della sua saliva sul corpetto che la ragazza indossava quando fu uccisa. Sul suo alibi (ha sempre sostenuto che al momento del delitto era con un amico, ma questi negò), le perplessità della procura di Roma, anche se, per quell’omicidio tanti personaggi nel tempo sono finiti nel mirino degli inquirenti senza che mai si arrivasse a un processo. Ora è la famiglia Busco a dover affrontare il giudizio del Tribunale.

Signora Milletari come ha reagito alla notizia del rinvio a giudizio di suo marito?
«La realtà che supera la fantasia, non la trovi nemmeno nei film. Non credevo che potesse succedere. Non ci credevo, e mi sembra ancora impossibile. Andremo comunque avanti per la nostra strada».

Come affronterete un periodo che si annuncia estremamente difficile per la sua famiglia?
«Non abbiamo altra forza, né economica per affrontare tutto questo, né di altro genere. Quello che abbiamo è l’innocenza di mio marito, e basta. Ho sempre detto a Raniero che nella sfortuna, la nostra unica fortuna, è quella di vivere questo brutto momento nel 2009, se fosse accaduto trecento anni fa, gli avevano già staccato la testa».

Non crede che sia giusto fare chiarezza in un aula di tribunale, anche se a distanza di vent’anni?
«Non si tiene in considerazione che si parla della vita della gente, gente normale, anzi normalissima. Questa volta è successo a noi domani a chi? Ripeto, come ho già detto, dicono sempre che è meglio un colpevole a piede libero che un innocente in galera ma a quanto pare non corrisponde al vero, oppure ci sono le eccezioni. Quello che vogliono è un colpevole a tutti i costi. Gli italiani dovrebbero essere davvero preoccupati per la giustizia se è vero che mandano una persona a processo per indizi così labili».

Lo ha detto ai suoi figli?
«No, ancora non gli abbiamo raccontato niente. Sono troppo piccoli. Hanno sette anni e a questa età i bambini sono spugne, assorbono tutto. Per fortuna che in casa c’è armonia, malgrado quello che stiamo passando. Li dobbiamo tutelare al massimo, sicuramente lo faremo gli parleremo insieme».

La vicenda vi sta creando problemi nei rapporto sociali?
«La gente si è immedesimata in noi, ci sostiene con tutte le forze. La cosa positiva, e ne sono felice, è che non tutti credono a quello che viene raccontato come la verità assoluta. La solidarietà di tanta gente anche persone che non ci conoscono direttamente ci ripaga di quello che stiamo passando».

Quando ha conosciuto suo marito?
«Ho conosciuto Raniero all’inizio del ”91, mi sono innamorata di lui perché era ed è una persona speciale, abbiamo una bellissima famiglia. Avevamo una vita serena fino a quando c’è piombata sulla testa questa accusa. Ho sempre avuto fiducia in mio marito, sempre. Mai una volta un dubbio, mai. Questa è una storia piena di contraddizioni dall’inizio».

(Elena Panarella, Il Messaggero 11/11/09)

***************************************

SCHEDA:

7 agosto 1990 - In via Poma, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù, viene uccisa Simonetta Cesaroni. Il cadavere viene trovato per l’insistenza della sorella Paola, preoccupata per il suo ritardo. Simonetta è nuda, ma non ha subito violenza carnale. Il cadavere è stato trafitto con 29 colpi di tagliacarte.
8 ottobre 1990 - Consegnati i risultati dell’autopsia. Il corpo ha una lesione ad un’arcata sopracciliare e diverse ecchimosi. La morte, avvenuta tra le 18 e le 18,30, è dovuta alle coltellate, vibrate sul corpo senza vestiti. Scattano le indagini.
30 gennaio 1995 - Escono di scena definitivamente tutti gli indagati. La Cassazione conferma infatti la decisione della Corte d’appello di non rinviare a giudizio gli indagati.
20 agosto 2005 - Claudio Cesaroni, padre di Simonetta, muore per una pancreatite.
12 gennaio 2007 - Il Messaggero, rivela le analisi dei Ris di Parma che avrebbero trovato tracce del Dna di un uomo sugli indumenti di Simonetta.
6 settembre 2007 - Busco è iscritto dalla procura di Roma sul registro degli indagati per omicidio volontario.
28 maggio 2009 - La procura di Roma chiede il rinvio a giudizio di Raniero Busco.
9 novembre 2009 - L’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, è rinviato a giudizio per omicidio volontario. Il processo comincerà il 3 febbraio prossimo davanti ai giudici della Terza corte d’Assise. A disporre il processo è il Gup Maddalena Cipriani.

_______________________________________

Anatomia di un delitto tra prove e misteri -

C’è uno strofinaccio di troppo nel teorema accusatorio che proietta Raniero Busco sul banco degli imputati per il delitto di via Poma. E un secchio di quelli utilizzati per le pulizie. E ancora, ci sono chili di carte che raccontano come fu trovato il corpo di Simonetta e qual’era il suo stato d’animo al momento del ceffone che la stordì, consegnandola alla furia del suo assassino.

Perché nel processo che comincerà il prossimo 3 febbraio in corte d’Assise, l’accusa dovrà fare in conti anche e soprattutto con le prove raccolte dagli altri magistrati che si sono avvicendati al timone di questa indagine. E che hanno disegnato un identikit del killer che non assomiglia al profilo dell’ex fidanzato di Morena. Ma andiamo con ordine.
A cominciare dagli indizi che hanno convinto il pubblico ministero odierno a bussare alla porta di Raniero Busco. Sono fondamentalmente quattro: una traccia di saliva sul reggiseno che indossava Simonetta; una somiglianza dell’arcata dentaria di Busco con l’impronta lasciata sul seno sinistro della ragazza; una sua contraddizione nell’indicare dove fosse il pomeriggio del delitto; una compatibilità del suo Dna con una delle tracce trovate nell’appartamento. Quattro indizi solidi. Che però non sembrano acquisire mai la valenza di ”prova” processuale se confrontati con le verità investigative che detective del calibro di Nicola Cavaliere e Antonio Del Greco misero nero sui bianco in quella calda estate del Novanta. A cominciare dalla relazione di servizio che descrisse la scena del crimine: la camera in cui si verificò l’omicidio venne ripulita accuratamente. Simonetta morì praticamente dissanguata e per terra era tutto asciutto. Almeno tre litri di sangue, disse l’autopsia, furono raccolti e eliminati. Sparirono anche i vestiti che l’assassino strappò via dal corpo della ragazza: una giacca bianca a maniche corte, stile Marina, acquistata per corrispondenza sul catalogo Postalmarket, e un pantacollant blu, descritto come molto provocante.

Il motivo di una condotta del genere, spiegarono gli investigatori, poteva essere uno solo: l’assassino aveva intenzione, con il favore della notte, di far sparire il cadavere dall’ufficio degli Ostelli della Gioventù. Voleva allontanare le indagini, i sospetti, le curiosità da via Poma. Una preoccupazione che poteva avere solo qualcuno che abitava o che lavorava in quel palazzo. Non certo Raniero Busco, che veniva dall’altra parte della città.

C’è la saliva sul reggiseno, c’è il morso. Ma la sera prima del delitto Simonetta vide Raniero: forse si scambiarono effusioni. Sicuramente due sere prima erano a casa di Annarita Testa, un’amica di lei, che raccontò: «In casa ci siamo appartate ognuno con il suo fidanzato e Simonetta è andata in camera mia, dove c’è la moquette...». E la traccia di sangue, che secondo l’accusa Busco potrebbe aver lasciato dopo essersi ferito nella collutazione, è solo ”compatibile”. Che è un concetto vago, quasi quanto quello del colore degli occhi. E poi la perizia sul corpo disse che non c’erano segni di difesa passiva sulle braccia, sulle gambe o sulle mani di Simonetta. Sotto le sue unghie non c’erano tracce di capelli, di peli, di pelle, che sono caratteristici del tentativo di una lotta estrema per la sopravvivenza. Significa che non ci fu colluttazione: chi l’ha uccise, l’ha colse di sorpresa, a freddo. E ancora: Raniero Busco non aveva movente. Quel sette agosto voleva solo partire per le vacanze con i suoi amici, senza di lei, come aveva fatto l’estate precedente, perchè «il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei mi amava strenuamente ed a volte mi faceva capire che da me pretendeva un maggior coinvolgimento», spiegò il ragazzo agli inquirenti. Che raccolsero infinite conferme nella loro comitiva di amici: era Simonetta a inseguire Raniero; lui voleva sottrarsi a quelle richieste di attenzioni e di presenza costante. E poi: Simonetta fu oggetto di una violenza inaudita: 29 coltellate, molte delle quali nella zona del pube, e poi il morso sul seno, il parziale denudamento. Che quella non fu una messinscena lo conferma il fatto che il killer voleva nascondere il corpo, tanto da ripulire la stanza. Quindi chi la uccise fu colto da un raptus sessuale vero. E Raniero Busco non era esattamente il più sospettabile di un impulso del genere: poteva avere Simonetta quando voleva.

E’ vero però che quando gli chiesero un alibi, lui rispose che era con l’amico Simone Palombi. Che invece era altrove. Ma glielo domandarono sedici anni dopo il delitto, quando il 7 agosto 1990 era ormai un giorno lontanissimo nel tempo.

(Massimo Martinelli, Il Messaggero 11/11/09)

*******

HO VISTO BUSCO ALLE 18: ERA A CASA-
ROMA - «Ma io non la conosco, se non la vedo di persona come faccio a parlarle? Venga a trovarmi e le racconterò tutto...».
Signora, sia comprensiva, con il traffico che c’è non arriveremmo mai in tempo. Ci conceda pochi minuti, visto che è diventata un personaggio chiave di questo processo.
«Guardi che io non lotto per la pubblicità, lotto perché Raniero è innocente».
Ecco, finalmente si è sbloccata, finalmente uno spiraglio si è aperto. Maria Di Giacomo oggi ha 70 anni e vive felicemente attorniata da figli e nipoti, nella casa di via Fosso di Sant’Andrea 45, a Morena, fra la Tuscolana e l’Anagnina, la casa che abitava il 7 agosto 1990 quando Simonetta Cesaroni venne uccisa. Neanche duecento metri dall’abitazione dei Busco, «amici di famiglia, persone esemplari».
Di quegli anni non ha perso l’accento napoletano e neppure la memoria d’acciaio e tanto meno il gusto di un parlare colorito: «Gesù, la verità mica la puoi chiudere in una busta» oppure «Ho un figlio avvocato ma, di giustizia non capisco niente. Però lo so quanto fa due più due». E così via, senza mai perdere la pazienza, anzi accalorandosi sempre più al punto di ammettere, quasi alla fine: «Guardi che non ho nessuna fretta».
La convocarono in procura non all’indomani del delitto , ma quasi diciassette anni dopo. Si ricordarono di lei, di questa casalinga sveglia e appassionata, solo la mattina del 29 gennaio 2007 e fu lì, a Palazzo di giustizia, che Maria Di Giacomo mise insieme a uno a uno i suoi tasselli, fornendo una montagna di orari e di particolari. Non è stata sufficiente, quella deposizione, a evitare il rinvio a giudizio di Busco, ma sicuramente risentiremo parlare di lei al processo.
E’ proprio sicura che fosse il 7 agosto?
«Perbacco se sono sicura. Il 6 agosto è l’onomastico di mio figlio Salvatore, ma anche quello di mio suocero, a quei tempi morto da poco. Mio marito non voleva festeggiare nulla, si rinchiuse in se stesso, muto per tutta la giornata. Solo il giorno dopo ebbi il coraggio di dirgli: dai, usciamo e andiamo e prendere un regalino per nostro figlio».
E che ora era?
«Le sei e un quarto del pomeriggio. Ricordo bene che mio marito, giù in strada, mi diceva di sbrigarmi. Lui era già al volante della sua Audi 90. Salii in macchina e alla prima curva rallentammo: ebbi tutto il tempo di vedere Raniero. Il cancello era aperto, lui sulla rampa carrabile a riparare una macchina chiara, tutto sporco di unto. Anzi, stava anche parlando con la madre».
Nel verbale della sua deposizione c’è scritto che lei fissa questo ricordo tra le 18 e 20 e le 18 e 25. E’ così?
«Si sbagliano. Io ho visto Raniero Busco e sua madre alle 18.18 di quel pomeriggio. E ho avuto tutto il tempo di fissare nella mente la scena prima che la nostra Audi riprendesse velocità».
E come seppe dell’omicidio di Simonetta?
«Sapevamo che Raniero era fidanzato, ma non conoscevamo questa Simonetta, neppure il suo nome. Quando il giorno dopo notai una bella confusione davanti alla casa dei Busco, pensai che erano arrivati i parenti della madre dalle Marche. Solo più tardi chiesi a Giuseppina di quel via vai e lei mi raccontò tutto: altro che parenti, quelli erano poliziotti».
Poi nessuno l’ha cercata fino al 29 gennaio 2007?
«Proprio nessuno, non ci pensavamo veramente più».
E da allora, da quando ha testimoniato a favore di Raniero, ha ricevuto pressioni, scocciature, minacce?
«No. Sono tornata a vivere la mia vita tranquilla».
Ore 18,18, dice la signora Di Giacomo e bisogno segnarselo quest’orario: se dice la verità l’assassino di Simonetta resta ancora indisturbato nell’ombra.
(Nino Cirillo, il Messaggero 12/11/2009)

********

Un’altra vicina di casa conferma l’alibi, ma nemmeno le sue parole salvano Raniero-

ROMA - Nell’inchiesta sull’omicidio di Simonetta Cesaroni che ha portato Raniero Busco a giudizio, c’è anche un’altra donna, un’altra vicina - oltre a Maria Di Giacomo - che sostiene di averlo notato quel pomeriggio mentre riparava nel giardino di casa la famosa Panda azzurra del fratello Paolo. Si chiama Annarita Pelucchini, oggi ha 54 anni e abita sempre in zona, a Morena. Lei e la Di Giacomo sono le famose «amiche di mia madre» di cui Raniero Busco ha parlato a lungo in recenti interviste.
Della Pelucchini abbiamo il verbale della deposizione, anche questa - come quella della Di Giacomo - datata 29 gennaio 2007, quasi diciassette anni dopo il delitto. E anche lei si proclama assolutamente certa che quello fosse proprio il pomeriggio del 7 agosto 1990, il pomeriggio dell’omicidio di Simonetta .
Se la Di Giacomo ancora i suoi ricordi all’onomastico del figlio Salvatore, la Pelucchini si aiuta con le tende di casa: «Le andai a consegnare a Giuseppina, per farle lavare come facevo ogni mese. Sono sicura di aver visto Raniero attorno a quella macchina. Saranno state tra le 17 e le 17.30».
Ecco, Annarita Pelucchini addirittura amplia lo spettro dell’alibi per Raniero Busco, lo sposta indietro di un’ora buona rendendolo ancora più credibile. Ma neanche questo è bastato. I ricordi incerti di colui che avrebbe dovuto ricordare meglio di tutti - e cioè proprio Raniero - hanno portato dritti al processo.
(Nino Cirillo, il Messaggero 12/11/2009)