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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

BALOTELLI L’EDUCAZIONE DI UN CAMPIONE

più facile che l’Inter passi al Nou Camp che Balotelli all’esame di maturità. Il vangelo secondo Mourinho è arrivato ai miracoli, saltando la parabola dei talenti. Sprecarne un altro è atto di resa a una storia già letta troppe volte. Stava cercando di educare l’uomo per far sbocciare il campione, ma ci sono verbi impossibili da coniugare, al tempo presente e con particolari soggetti.

Qui cercheremo di capire perché.

L’educazione di un campione presuppone, anzitutto, che un simile fenomeno si affacci. In quella realtà dilatata che è il nostro condiviso passato si trattava di qualcosa con la frequenza di una cometa.

Occorreva attendere generazioni, il ricordo si tramandava, la profezia del successore era paragonabile all’attesa del Messia: un atto di fede, come tale non contornato da certezze. Siamo passati alle stelle cadenti, visibili a mazzi, a occhio nudo, puntuali come sogni ricorrenti. Due gesti fuori dall’ordinario e oplà: ecco un nuovo astro. Che si riveli meteora è spesso inevitabile. Il "campione" è la novità per un pubblico annoiato dalla ripetizione, dall’evento sportivo che si replica ormai quotidianamente e ne ha bisogno come la parola di un evidenziatore per non sbiadire tra le righe. E’ giovane. E’ diverso. E’ una promessa? Non c’è tempo, è già realtà. Senza perdersi in esempi minori, basta arrivare a quello che tutti li contiene. Il 5 aprile 2009 il diciassettenne Federico Macheda esordisce con la prestigiosa maglia del Manchester United e segna nei minuti di recupero il gol della vittoria con l’Aston Villa.

Si ripete nell’incontro successivo. Due indizi non fanno una prova, ma prima che il gallo canti tre volte già si chiede in una conferenza stampa al ct della nazionale Marcello Lippi: "Pensa di convocare Macheda?". E perché? Perché è un campione, no? Perché ha fatto due gol? Due? Così va: abbiamo abbassato l’asticella, se non stiamo attenti ci inciampiamo camminando su questa strada che è un viale dell’alba: nascono campioni a ogni passo. E’ un tempo di facile gloria: si diventa scrittori immortali con un libro (e non sto parlando di Salinger), divi con tre film (e manco morendo dopo, come James Dean), famosi per niente. Vuoi che non bastino due gol per essere un campione? Balotelli li fece alla Juventus in coppa Italia e segnò il suo destino. Come mantenere la misura delle cose se il mondo non te la prende con il metro giusto? Uscendo dallo spogliatoio dopo una prestazione deludente con la maglia dell’Under 21 l’allora imberbe Alessandro Nesta invece di, non dico scusarsi, ma ammettere i propri limiti, disse: "Non devo dimostrare niente a nessuno". Essere campioni è dimostrarlo nel lungo periodo, sbagliare novemila tiri come ha fatto Michael Jordan per arrivare a infilare, nel deserto dello Utah e della squadra sfinita che l’attorniava, i tre decisivi nei 42 secondi che gli valsero l’ultimo titolo. E’ crescere guardando avanti e pensando che là è la gloria, mai ora. Come fai a dirlo a un ragazzo di oggi? A uno che vede vendere montagne di dischi mica a John Lennon, ma al primo sconosciuto appena intonato che commuove la giuria di un talent show? A uno che alla seconda cosa giusta che fa si vede recapitare una chiave d’oro con la garanzia che aprirà la porta del paradiso, un paradiso il cui profeta e designer sembra Donald Trump? La generazione dei campioni presunti ha biografie simili, padri assenti, succedanei in forma di allenatore che tentano di salvarli da se stessi e dal piano B del destino, spietato come un play off: o fai successo o muori. Nel primo anno di Cassano alla Roma mister Capello, deciso a educarlo, fece sapere che, prima di farlo giocare, voleva insegnargli a stare a tavola. All’ennesimo pranzo in cui quello violava il divieto di uso del cellulare sbottò: "Smettila! Devi maturare e impegnarti! Il talento da solo non basta!". E’ una banalità, eppure è la chiave di tutto. Se è permesso dissentire da un quasi infallibile come Capello, qui lo farei. Il talento è una brutta bestia. Averlo è una fortuna e una condanna. Sei costretto a giocare tutta la vita sul palco, ad affrontare il demone dell’autodistruzione, quando ti avrà stancato il gioco o non riconoscerai più la legittimità di chi fa le classifiche, a misurarti con gli altri dei e se li batti non ti resta che sfidare te stesso e farti del male. Il vero problema però è la misura di quel talento. La vera dannazione è averne, sì, ma un po’. Allora ti piaci, ma mai abbastanza. Sai di poter fare molto, ma non tutto.

A ogni successo o elogio senti più vicino il momento in cui il bluff verrà scoperto. Il sospetto, mister Capello, è che il talento assoluto, da solo, basti eccome. Che gente come Maradona, Platini, Baggio avesse dentro di sé gli stessi demoni di Denilson, Cantona, Flachi, ma quando scendeva in campo a comandare non era la testa, fallace, erano i piedi, perfetti.

Il talento assoluto è una dittatura che non ammette opposizione, almeno finchè ha energia, non riesci a sprecarlo neppure volendo. Se lo fai vuol dire che ha incontrato il proprio limite o esaurito il proprio tempo. Zidane dà di testa in mondovisione alla fine, Balotelli subito: un motivo ci sarà. I talenti sprecati sono talenti limitati che nessuna educazione poteva spingere oltre. E’ probabile che i loro possessori lo sappiano e si rifugino nella recidiva per non affrontare la verità. Possono evolversi, cambiare? Cito una frase di George Best: "Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcol: sono stati i peggiori venti minuti della mia vita".

Il punto è che gente come Best o Gigi Meroni rappresentava uno scarto, una controcultura, esprimeva la propria ribellione indicando stili e comportamenti alternativi. I loro eredi sono, anche, conformisti. Emettono il loro comunicato sdegnoso abbassando il finestrino di una Ferrari, risollevandolo in faccia alle repliche e sgommando via in una nuvola di fumo: ciò che molto spesso di loro rimarrà.

Recuperabili? Denilson, pagato una cifra record dal Betis Siviglia, è stato rifiutato in 3 continenti e ha appena rescisso un accordo con la squadra greca del Kavala, per la quale ha giocato minuti zero. Best se n’è andato lasciando ai ragazzi un messaggio: "Non morite come me". Sarà stato utile? O il fascino della sregolatezza batte ogni strategia educativa? Un piccolo segnale contrario: nella diatriba tra l’allenatore Del Neri e il calciatore Cassano un sondaggio ha rivelato che i tifosi stavano con il primo. Con il ragioniere, non con il trapezista. Perché il genio, quello vero, batte tutti rispettando le regole e non va mai in fuorigioco.