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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

SCOMMESSA SU UN’ITALIA NUOVA

Attorno all’auto si intrecciano e si aggrovigliano oggi tre discorsi diversi. Il primo è quello globale, che vede il mercato dell’auto ansimare dei paesi avanzati e crescere vorticosamente nei paesi emergenti, con auto più piccole e molto meno costose. Per soddisfarli entrambi, e quindi per tener conto congiuntamente delle esigenze della sicurezza, dell’ambiente e di bassi prezzi di vendita, è necessario investire molto e produrre in grandi quantità veicoli con le medesime caratteristiche di base (le cosiddette "piattaforme").
Per il futuro ci si deve quindi attendere un grande mercato globale con pochissimi produttori per i quali la soglia di sopravvivenza è stimata in 6-7 milioni di veicoli l’anno. Di qui ha origine la corsa delle società produttrici a fusioni e accordi. La Fiat - recentemente alla ribalta per l’acquisizione di una quota dell’americana Chrysler - non è certo la sola a cercare di crearsi una base globale: per limitarsi a notizie recenti, occorre citare l’intesa di Renault-Nissan con la tedesca Daimler per un’accresciuta cooperazione tecnica.
E General Motors vende ormai più auto in Cina che negli Stati Uniti, mentre il dinamismo delle vendite della Fiat in Brasile fa fortunatamente da contrappunto alla debolezza della domanda automobilistica europea.
Il secondo discorso sull’auto, va decisamente a scontrarsi con questa visione globale e guarda invece ai luoghi di produzione in lista di possibile chiusura, ai posti di lavoro inaspettatamente diventati a rischio non solo nelle fabbriche ma anche negli uffici e tra i fornitori. Tutti gli accordi che le imprese considerano positivi sulla via della sopravvivenza nel mercato globale, ai cancelli degli stabilimenti sono guardati con intensa preoccupazione come possibili minacce di imminente cessazione dell’attività.
Ogni grande impresa automobilistica ha i suoi Termini Imerese; che possono chiamarsi Flins e Melun rispettivamente per Renault e Peugeot, oppure Anversa per la General Motors e l’elenco potrebbe continuare. Da un punto di vista tecnico-economico, queste chiusure, già effettuate o possibili, sono la contropartita dei progetti mondiali: è difficile realizzare i secondi senza procedere alle prime. Le imprese dell’auto sono quindi tirate da due parti: per finanziarle il mercato richiede piani credibili di sopravvivenza ed espansione (due obiettivi che, in tempi lunghi, si fondono perché chi non si espande non sopravviverà) mentre il territorio, sul quale, di regola, le imprese dell’auto sono fortemente radicate, richiede assicurazioni per il mantenimento dell’attuale livello di attività.
Le cifre del piano Fiat possono essere intese come un tentativo di soluzione che cerca di tener conto contemporaneamente delle compatibilità del mercato e delle esigenze del territorio. Al di là di quanto possibile a livello aziendale, è necessario l’intervento pubblico ed è questo il terzo discorso sull’auto: tale intervento è necessario nella forma di programmi assai più che di finanziamenti che devono riguardare separatamente il futuro dei lavoratori in eccesso e il futuro delle imprese impegnate in questa trasformazione. L’istanza di mantenere i posti di lavoro attuali come sono e dove sono appare in ogni caso destinata al breve periodo.
Si tratta di problemi scomodi che nessun governo è entusiasta di affrontare. Anche in Italia è sicuramente mancata a livello politico una discussione sull’industria dell’auto (e sull’industria in generale) che andasse al di là dei discorsi di piccolo cabotaggio dei bonus e del "salvataggio" immediato dei posti di lavoro e si estendesse alle nuove tecnologie del settore e alle loro ricadute occupazionali (naturalmente se l’auto continuerà a essere una struttura portante del sistema industriale italiano). Al contrario, almeno in Francia e negli Stati Uniti, questi discorsi sono stati concretamente impostati e in entrambi i paesi è stato di fatto varato una sorta di piano nazionale dell’auto.
Mentre le regole chiamano in causa i governi, le risorse per l’auto globale, a lungo andare, devono venire in prevalenza dal mercato finanziario globale. E il discorso del mercato globale - che la Fiat ha affrontato ieri con la presentazione dei suoi programmi fino al 2014 - implica quasi sempre la divaricazione delle strade dei vari rami di attività che oggi convivono all’interno dei grandi gruppi automobilistici ove questi non siano strettamente integrati da un punto di vista tecnologico. La separazione di Fiat Industrial dalle attività automobilistiche non significa inizialmente una variazione nella proprietà ma appare sicuramente come il riconoscimento di esigenze finanziarie diverse e di futuri tecnologicamente separati.
Il piano Fiat pone il paese di fronte a un’ipotesi di realtà futura. Per questo motivo potrebbe risultare il primo contributo alla messa a punto della nuova Italia economica che emergerà dalla crisi attuale, un problema per il quale sulla scena politica ben pochi sembrano avere tempo ed energie da spendere. C’è da augurarsi che si tratti di un primo passo, nell’ambito di una dialettica costruttiva, per la presa di coscienza dal parte del Paese della realtà sgradita ma inevitabile di un’economia mondiale nella quale, volenti o nolenti, dobbiamo nuotare per restare a galla.