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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

AL FREDDO DEI VULCANI

«Una fitta nebbia ha bloccato i raggi del sole su tutta l’Europa e larga parte del Nord America, durante la primavera e l’estate del 1783, mantenendo il suolo gelato e intatta la neve, che ha continuato a caderci sopra come fosse inverno ». Così Benjamin Franklin – primo ambasciatore americano in Francia, a partire dall’indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 – riporta le conseguenze dell’eruzione del vulcano islandese Laki sull’emisfero settentrionale. Fu una delle maggiori catastrofi per l’Europa di quel tempo, con migliaia di morti avvelenati dalle ceneri solforate, una dura carestia dovuta alla distruzione dei raccolti e un’ondata di miseria con gravi ripercussioni anche sugli anni successivi, che secondo alcuni storici contribuirono allo scoppio della rivoluzione francese.
«Niente di tutto questo accadrà stavolta», spiega Warner Marzocchi, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e responsabile per l’Europa della World Organization of Volcano Observatories, che sta monitorando il fenomeno in contatto coi colleghi islandesi. «L’eruzione dell’Eyjafjallajökull colpisce l’immaginazione della gente perché ha bloccato il traffico aereo europeo, ma se non fosse per questo ce ne saremmo accorti a malapena» precisa Marzocchi. L’eruzione del Laki sparò 120 milioni di tonnellate di anidride solforosa nella stratosfera, come dire tre volte le emissioni industriali globali nel corso di un anno. «Questa eruzione invece ha emesso volumi limitati di gas e anche se durasse mesi le sue ricadute sul clima resterebbero molto modeste», rassicura Marzocchi. L’eruzione del vulcano filippino Pinatubo, l’ultimo episodio rilevante per il clima mondiale, è stata di 3-400 volte maggiore di questa.
Nel giugno del ’91 il Pinatubo sparò 30 milioni di tonnellate di aerosol solforico nella stratosfera, causando un raffreddamento medio della temperatura mondiale di mezzo grado, anche per l’anno successivo. La sua nuvola carica di particelle di zolfo, emessa quasi tutta d’un colpo in tre ore di eruzione esplosiva, raggiunse i 34 chilometri d’altezza e sisparse attorno al globo nel giro di 22 giorni, per poi restare sospesa lassù oltre un anno prima di disperdersi gradualmente. Lo zolfo sparato in aria dall’interno del vulcano come anidride solforosa, che legandosi con il vapore si trasforma in minuscole gocce di acido solforico, frammenta e riflette i raggi del sole, rimandandone indietro una parte a disperdersi nello spazio. In questo modo può raffreddare il pianeta per mesi, compensando l’effetto serra dovuto alle emissioni umane.
 lo stesso risultato che alcuni scienziati vorrebbero fabbricare, sparando nell’atmosfera particelle di zolfo, in una delle varie proposte di geoengineering, per contrastare il riscaldamento globale.
Sulle conseguenze dell’emissione vulcanica di zolfo nell’atmosfera non vi sono dubbi: nel monitoraggio del clima avviato dall’International Council of Science nel 1980, il diagramma risulta costantemente in crescita, tranne per due anni, l’82 e il ’92, corrispondenti alle ricadute dell’eruzione del vulcano messicano Chichon e del Pinatubo. Nella primavera dell’82, il Chichon sparò nella stratosfera 13 milioni di tonnellate di anidride solforosa fino a 25 chilometri d’altezza e la temperatura globale quell’anno si abbassò di due decimi di grado. Anche prima che il monitoraggio fosse avviato si registrarono improvvise cadute, in corrispondenza dell’eruzione del vulcano indonesiano Awu nel ’66 e del monte Agung a Bali nel ’63.
Le conseguenze più marcate si percepirono in Europa e Nord America dopo l’eruzione del vulcano
AP
Tambora, sull’isola indonesiana di Sumbawa, definita la Pompei dell’Oriente dopo la recente scoperta di case e manufatti sepolti sotto la cenere nella catastrofica eruzione dell’aprile 1815, la più vasta registrata nella storia moderna. L’esplosione del Tambora fu udita a 2.600 chilometri di distanza e mandò nella stratosfera una colonna di materiale fino a 43 chilometri d’altezza, con un fallout su un raggio di 1.300 chilometri, che lasciò vasta parte dell’Indonesia al buio per due giorni. In Occidente, il 1816 passò alla storia come «l’anno senza estate»: da aprile a settembre le temperature si mantennero invernali, con ripetute nevicate anche in agosto. I raccolti andarono perduti, diffondendo fame e malattie negli strati più deboli della popolazione, scatenando profezie di sventura e sommosse di piazza.
L’aumento dell’attività vulcanica è ritenuto dai climatologi anche alla base della Piccola Era Glaciale, una lunga fase di raffreddamento del clima terrestre che mise a dura prova i nostri antenati dall’inizio del 1400fino ai primi decenni del 1800. La Piccola Era Glaciale fu caratterizzata da inverni molto freddi, documentati dettagliatamente sia in Europa che in Nord America.