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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

Il primo aprile in Francia scoppia l’allarme silicone, con le protesi di 30 mila donne a rischio di rottura e un gigantesco scandalo in procinto di esplodere

Il primo aprile in Francia scoppia l’allarme silicone, con le protesi di 30 mila donne a rischio di rottura e un gigantesco scandalo in procinto di esplodere. L’Agenzia per la sicurezza sanitaria francese, infatti, ha confermato che sono state sospese dalla commercializzazione le protesi che la Pip, Poly Implant Prothèse, ha prodotto dal 2001 a oggi, perché contengono un gel al silicone diverso da quello dichiarato, e non conforme alle normative europee. IN pratica, hanno il doppio delle probabilità di rompersi. Subito dopo, arriva la conferma che quelle protesi circolano anche in Italia. *** Mentre l’allarme tette dilaga tra le signore europee, i dipendenti della Poly Impant Prothése protestano davanti ai cancelli chiusi dell’azienda, prendendo a calci un mare di protesi contraffatte. La Pip, leader francese del settore, che ha sede a La Seyne-sur-Mer, in Provenza, è in liquidazione, e i 120 dipendenti rimasti senza lavoro temono anche di perdere le indennità che dovrebbero ricevere. *** «Le Pip sono protesi economiche, costano dal 30 al 40 per cento in meno delle migliori, che facilmente finiscono nel sommerso della chirurgia, dove non è più possibile rintracciarle» (Marco Klinger, responsabile dell’unità operativa di Chirurgia plastica dell’Istituto clinico Humanitas di Milano). […] Non è la prima volta che dalla Francia arrivano protesi difettose. Come testimonia Klinger, una quindicina di anni fa i chirurghi plastici milanesi si sono visti arrivare una partita di protesi ancor più curiosamente difettose: «Avevano il problema di assorbire i liquidi corporei. Così, con il tempo, crescevano», ricorda il chirurgo. «Se io facevo una terza misura, la signora si vedeva lievitare nel tempo il seno, fino a una quarta, una quinta e così via. In tutta Milano ci furono una decina di casi. Una cliente mi fece anche causa. La invogliai io a citarmi in giudizio, per poi a mia volta potermi rivalere sulla ditta produttrice, e farmi pagare il danno di immagine. Risultato: in primo grado il tribunale mi condannò a risarcire la paziente con 40 milioni di lire. N appello, poi me li restituì, ma non fu mai condannata l’azienda produttrice».