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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

LO SPEZZATINO FIAT CI LIBERER DAGLI AIUTI DI STATO


Fabbrica Italia. Nel primo giorno del dopo Montezemolo, Sergio Marchionne sfida il sindacato. Ma soprattutto la retorica del declino, tanto cara ai grilli parlanti che invocano «una visione di politica industriale», ovvero una pioggia di contributi pubblici
per tenere in vita impianti decotti. Signori, dice Marchionne, il calo della produttività e, di riflesso, della competitività delle imprese italiane, nasce da qui: gli impianti lavorano poco. I sei stabilimenti Fiat nella Penisola girano al 50-60% mentre a Tichy, la fabbrica modello in Polonia, ha girato al 120%.
D’ora in poi, se l’Italia vuol sopravvivere, bisogna cambiar registro: ci vuole il pieno utilizzo degli impianti, ma anche il contenimento del costo del lavoro e la massima flessibilità da parte di tutti, managers compresi. Anzi, d’ora in poi per i momenti di calo della domanda dovrano essere previsti «periodi temporanei di riposo». Insomma, una medicina che rischia di andare per traverso agli strateghi della pace sociale. Ma attenzione: a differenza di quanto accadeva ai tempi di Montezemolo (che ieri Marchionne ha sostituito anche come capo della Ferrari davanti agli analisti) non c’è alcun riferimento al ruolo della politica e, di riflesso, di ricorso al denaro pubblico. Almeno sulla carta «Fabbrica Italia» è un progetto a costo zero per Tremonti. Una novità rivoluzionaria forse più ancora di quella, già ampiamente annunciata, dello spezzatino entro la fine del 2010. Da una parte l’Auto, che si avvià alle nozze con Chrysler per dar vita ad un blocco capace di produrre, spera Marchionne, sei milioni di vetture entro il 2014. «Il minimo per essere un global player». Dall’altra, camion, macchine movimento terra e per l’agricoltura oltre ai mo-
tori (almeno la parte non legata all’auto). Anche qui c’è aria di alleanze, se non di matrimoni: Iveco è a caccia di un partner, preferibilmente negli Usa. Le macchine movimento terra potrebbero trovare un socio in Asia, l’Eldorado delle grandi opere. Prospettive gradite alla Borsa, che da tempo ha eletto l’ad di Fiat quale suo beniamino, capace di compiere le missioni più improbabili. Anche quella di resuscitare, in meno di un anno, la vecchia Chrysler. Ebbene, ieri Marchionne, che sa ammaliare la platea, ha sfoderato la notizia che la società di Detroit è tornata in utile nel primo trimestre. Una sorta di magia che, però, impallidisce di fronte alle promesse di Fabbrica Italia: se funzionerà il nuovo modello, promette Marchionne, le sei fabbriche italiane di Fiat sforneranno, nel 2014, un milione e quattrocentomila macchine contro le 600 mila del 2009, Due vetture su tre, per giunta, verranno esportate, ribaltando in senso positivo i conti della bilancia commerciale.
Ma attenzione, nella nuova Fiat il concetto di flessibilità vale per tutti. Anche per le scelte dei top manager: se la produttività degli stailimenti resterà ai livelli attuali, magari per gli stop a singhiozzo imposti per vertenze locali, non sarà difficile cambiar rotta verso la nuova fabbrica in Serbia o la solita Tichy. Fabbrica Italia, insomma, è qualcosa più di un sogno. Ma può trasformarsi in un incubo, di quelli che piacciono ai retori della politica industriale in cui a pagare è sempre il contribuente.