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 2010  aprile 20 Martedì calendario

IL TEATRO OGGI MUORE DI CONFORMISMO

Luca Ronconi elogia il pubblico. Poco gli importa se i detrattori gli contestano proprio una concezione del teatro punitiva per gli spettatori. Ronconi sorride sornione e tesse imperturbabile le lodi degli italiani che amano il teatro, che lo apprezzano, lo frequentano, lo praticano. Il regista, 77 anni a marzo, sarà da oggi fino a domenica 25 alle Fonderie Limone di Moncalieri, stagione dello Stabile di Torino, con Giusto la fine del mondo, di Jean-Luc Lagarce, protagonisti Riccardo Bini, Melania Giglio, Pierluigi Corallo, Francesca Ciocchetti, Bruna Rossi, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, di cui Ronconi è direttore artistico. «Ma sono in scadenza, e dopo non so che cosa succederà. Forse farò ancora uno spettacolo, non è detto». Il regista, bello nella barba bianca e nello sguardo che dardeggia, non è un grande parlatore, gli piace esprimere il proprio pensiero più con le opere che con le parole. Assistere alle prove dei suoi lavori è un’esperienza che vale almeno quella dello spettacolo. E’ come un direttore d’orchestra, gli attori sono gli strumenti. Però i suoi concetti sono chiari e affilati quali rasoi e lui si accalora quando racconta questo «progetto Lagarce», di cui va in scena il secondo spettacolo. Il primo fu I pretendenti, regista Carmelo Rifici. «Io non mi ero sentito bene - ricorda Ronconi - e non avevo potuto seguire l’allestimento fino in fondo».
E stasera sarà al debutto?
«No, non posso, sempre per problemi di salute. Mi dispiace molto, Torino ha un significato speciale, per me».
Per il «Progetto Domani», Olimpiadi del 2006, o per il periodo in cui diresse lo Stabile, dal 1989 al ”94?
«Per il periodo dello Stabile. E, soprattutto, per Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus. Uno spettacolo irripetibile. Per il tempo e per il luogo. Andò in scena al Lingotto, un Lingotto ancora grezzo, ben lontano da quello che è adesso. Aver messo in scena un lavoro come quello fu una grande vittoria per il teatro e per la città. Io me lo porto nel cuore».
E pure chi vide lo spettacolo non lo può dimenticare: ora sarebbe possibile realizzarlo?
«Non credo. I tempi sono cambiati. E siamo cambiati anche noi».
Sarebbe irrealizzabile per motivi economici?
«Non solo per quello. Non è solo questione di soldi e di tagli. E’ che nei confronti di certi temi, di certi procedimenti espressivi anche sperimentali, come poteva essere l’opera di Kraus, ora c’è meno interesse. Il conformismo è più forte, i tempi non sono felici per il teatro, c’è disattenzione da parte del potere politico ma anche della stampa. Si danno alcune notizie, poche, e si abbandona una qualsiasi analisi, anche critica. Ma sotto la cappa dell’indifferenza istituzionale, il pubblico è numeroso e in cerca di qualità. Peccato che sia penalizzato, è un potenziale che non va fatto deperire».
Perché ha scelto Lagarce, scrittore poco noto in Italia?
«Le opere di Lagarce, morto di Aids nel 1995 a 38 anni, sono un grande esempio di drammaturgia contemporanea. Dove "drammaturgia" è un termine generico, bisogna distinguere. Ci sono autori e ci sono commediografi, e non sono sinonimi. Lagarce è un autore vero, come Godot, come Beckett, diventati intanto dei classici. I suoi temi, la sua scrittura non sono affatto banali: il linguaggio è quotidiano e nello stesso tempo molto personale».
Che succede in Giusto la fine del mondo?
«Un giovane abbandona casa e famiglia in provincia per andare a studiare a Parigi, diventa scrittore, si ammala di Aids, scopre che gli resta poco da vivere, torna per un giorno al suo paese, deciso a raccontare tutto. La giornata passa, e lui non rivela niente: affastella concetti, maschera la reticenza con una valanga di parole, e non si arriva mai alla fine. Lagarce coglie lo scarto tra pensiero e linguaggio. Noi siamo abituati a un teatro dove il concetto è sempre espresso chiaramente: bene, qui no».
E gli attori che dicono?
«Che è un testo molto difficile da recitare. Ma che dà tanta soddisfazione».