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 2010  aprile 20 Martedì calendario

NIZZA E SAVOIA IN FESTA: 150 ANNI FA L’ADDIO ALL’ITALIA (2

articoli + scheda) -
Garibaldi che fece il suo ingresso il 12 aprile 1860 nell’ex sala da ballo di palazzo Carignano non era rigonfiato dalla fama di eroe dei due mondi: niente poncho sudamericano, niente camicia rossa, insomma il Risorgimento non era ancora impersonificato dalla sua apoteosi. Certo la gente lo accompagnava acclamandolo all’albergo Gran Bretagna dove alloggiava. Piaceva questo avventuriero con una istintiva intelligenza della guerra. L’aula del Parlamento era stracolma, i deputati delle nuove province sistemati nelle file più alte, i cosiddetti «antri», dove non si sentiva nulla. Annusavano, quel giorno, battaglia. E grossa, Garibaldi deputato di Nizza, aveva la parola. Tre giorni dopo era fissato il plebiscito per ratificare l’annessione della città, e della Savoia, alla Francia, come stabilito nel trattato di Torino. La vitrea bile del generale non poteva accettare che la ragion di Stato gli rubasse la patria per regalarla a Napoleone terzo, il «bombardatore di Roma», l’uomo dalla politica volpina l’amico dei preti esecratissimi. E che a Villafranca aveva mutilato il Risorgimento della vittoria finale. Garibaldi prese posto nei banchi della sinistra, incastrato fra Rattazzi e Depretis. Qualche testa calda gli aveva proposto una «marcia» su Nizza per rovesciare le urne. Per fortuna non diede loro retta. Scaraventò invece un discorso furibondo di diritto e di storia, citando lo Statuto che vietava di alienare parti dello Stato, ricordando che Nizza era «fedele ai Savoia dal 1388».
Tutto inutile. Cavour, con la solare stagione del ”59 alle spalle, era invincibile. E sapeva maneggiare il suo credito per scassinare l’altrui. Rinfacciò crudelmente al generale l’umiliazione subita nella sua città alle elezioni: aveva ottenuto solo 444 voti, il 72 per cento degli elettori del collegio non era andato a votare. Era questa la città che voleva restare assolutamente italiana? Avrebbe avuto altre delusioni, l’incoercibile generale. I 25 mila 743 voti a favore della Francia contro 160, ovvero il 99,3 per cento per esempio. Il 16 per cento di astensione e qualche paesino vicino alla Liguria renitente non zuccheravano il disastro, in Savoia era andata ancor peggio: 130.533 sì contro 235 no e 71 astensioni, ovvero il 99,8 per cento. Un solo Comune, nel Chablais, votò no: ma non per amore degli italiani, semmai perché voleva essere annesso dalla Svizzera!
Avevano ben trescato gli agenti dell’imperatore, inviati a «fare pedagogia del referendum». Il sindaco di Nizza, Francesco Malaussena, bella tempra di voltagabbana, aveva dato una mano con un proclama già bilingue in cui arrantolava: «Ciascuno deponendo il suo voto pensi a ciò che deve al suo Paese, alla Francia e all’imperatore». In molti seggi, per concimare le scelte dei dubbiosi, mancarono i bollettini con il no. Il corrispondente del Times sparpagliò per queste soppiatterie sulla autorevole gazzetta «la più grande farsa mai giocata nella storia delle nazioni». Un po’ esagerava, ma all’Inghilterra quell’ingrandimento francese, risultava una pietra di inciampo.
Questo primo grumo di precoce antirisorgimento (altri ne verranno con lo svanire a grandi folate dei fumi della epopea rivoluzionaria) era insomma iscritto nei fatti. Ci volevano 40 ore in diligenza per raggiungere da Chambéry Torino; mentre le ferrovie si allungavano tentatrici in Francia. I collegamenti le nuove province le riceveranno infatti in dono con l’annessione. I ricchi mandavano da tempo i rampolli a studiare Parigi, mentre i poveracci lavoravano come giornalieri nelle campagne della Provenza o come muratori a Parigi e a Lione. Persino Nizza aveva di che lamentarsi del «buon governo» di Torino, con Genova che le faceva ormai concorrenza spietata. Appena rinfoderata la folgore napoleonica, tornati sotto «lo scettro paterno del re dei loro padri», savoiardi e nizzardi rimuginavano su un bilancio da zone depresse. Quei Savoia professavano devozione solo alle feconde pianure del Po, non alle avite ma desolate montagne. Quando in agosto Napoleone e l’algida Eugenia in viaggio per l’Algeria passarono a visitare i nuovi dipartimenti fu il momento più bello del loro regno poi incatenato alla tragedia. Ad Annecy, sul lago, organizzarono una grande festa veneziana.
Compiuto il Fato, sarebbe arrivato anche il tempo della delusione. La spiccia Francia centralista aveva mano più dura dei piccoli re di Sardegna, il sistema amministrativo, la coscrizione e la scuola vennero rapidamente omologate, il numero di notai e avvocati ridotto, l’amministrazione delle acque e delle foreste cominciò a pesare sui contadini. E poi c’erano i luoghi comuni, un po’ razzisti: i «savoyards» (come tutte le parole che finiscono in «ard» dotate di un senso peggiorativo), bersagliati come montanari ottusi che pulivano le strade della capitale. Per sfuggire alla dannazione semantica cominciarono a definirsi «savoisien». Per i funzionari essere spediti nei nuovi dipartimenti era una punizione.
La Francia, dove Napoleone il piccolo è tornato di moda, celebra giuliva «il ritorno» di Nizza e Savoia». Giovedì arriverà Sarkozy per pronunciare un discorso a Chambéry. Quale migliore occasione per chiudere tripudiando il verminoso dibattito sulla identità nazionale? Ci sarà qualche striscione del mini partito indipendentista, la Ligue savoisienne, che rivendica un migliaio di iscritti «e cinquemila simpatizzanti». Patrice Abeille, ex consigliere regionale, ribadisce tenace che «il trattato del 1860 è decaduto con il venir meno della zona franca concessa da Napoleone e abolita nel 1919. Parigi occupa dunque illegalmente la Savoia del Nord e del Sud». La lega presenta qualche candidato alle cantonali, certo non per profetare la riannessione all’Italia. Fa propaganda a un progetto di «federazione savoiarda» sul modello svizzero e di cui dovrebbe far parte anche la valle d’Aosta. A Nizza resta come segno di indipendenza il dialetto. Polvere.
DOMENICO QUIRICO

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Se Nizza fosse rimasta italiana, oggi godrebbe certamente d’una larga autonomia come la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, il Friuli», dice Alain Roullier, che nel 2001 ha fondato la «Lega per la Restaurazione delle libertà nizzarde». Ha pubblicato una ricerca storica molto critica sugli anni dell’annessione, ha fatto politica e organizzato manifestazioni in ricordo di Giuseppe Garibaldi. Al momento le percentuali ottenute alle elezioni comunali sono minime perché, dice, «la Francia controlla tutto; in centocinquant’anni si è gettata sulla città come un rullo compressore e non ha lasciato alcuna possibilità al dissenso». Ma guarda con ottimismo al futuro.
Roullier ha anche rieditato, traducendoli in francese, i libri degli autori nizzardi di lingua italiana scomparsi dalle biblioteche, come quelli del patriota mazziniano Enrico Sappia, feroce avversario del «plebiscito», e di Giuseppe André, anche lui fortemente anti-francese. La sua lega non sogna Roma e neppure l’italiano - lingua che Alain Roullier pur con grande rincrescimento non parla - ma una forte autonomia amministrativa, fino all’utopia dell’indipendenza. Non è la prima volta. Già nel 1871, ci ricorda, la popolazione delusa insorse contro i francesi e votò a gran maggioranza candidati indipendentisti. Fu una vera rivolta, nota come i «vespri nizzardi», soffocata con i soldati e le deportazioni. L’ultimo libro di un intellettuale italofono, pubblicato nel 1926, era anzi firmato da un reduce di quei giorni lontani: il giornalista Giuseppe Brest, che nel ”71, giovanissimo, partecipò ai moti e venne internato.
Il professor Giulio Vignoli (Università di Genova) ha approfondito questi temi in vari studi tra cui Gli Italiani dimenticati (Giuffrè), e per molti aspetti è d’accordo: «Non è facile neppure oggi lavorare su questi vecchi libri, in Francia. ovvio, si viene subito accusati di revanscismo e fascismo». «Ma Mussolini non c’entra niente, ha solo combinato un disastro - gli fa eco Roullier - mettendo un’arma formidabile in mano ai francesi». C’è una Nizza scontenta, che si sente nizzarda e basta, provenzale, mediterranea, latina. «E che dal 1338, quando si mise sotto la protezione dei Savoia, ha sempre guardato all’Italia - conclude il leader indipendentista -. Queste sono cose che non si cancellano». indubbiamente piccola, sì; ma quanto?
MARIO BAUDINO

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LE DATE
20/7/1858
Accordi di Plombières. Cavour e Napoleone III ipotizzano un futuro assetto che prevede l’annessione al Regno di Sardegna di Lombardo-Veneto ed Emilia Romagna e la cessione alla Francia di Nizza e Savoia.
26/4/1859
Il Regno di Sardegna dichiara guerra all’Austria. la seconda guerra d’Indipendenza che si concluderà l’11 luglio con la pace di Villafranca: al Piemonte va la Lombardia, ma il Veneto resta all’Austria.
24/3/1860
Il trattato di Torino: Napoleone III chiede, come sancito a Plombières, la cessione di Nizza e della Savoia, da confermare mediante plebiscito. La Francia non si oppone all’annessione di Emilia, Romagna, Marche e Toscana al Piemonte.
10/6/1860
I plebisciti ebbero luogo il 15-16 aprile nella Contea di Nizza e il 22-23 dello stesso mese in Savoia: 99,9 e 99,3% furono rispettivamente gli esiti a favore dell’annessione alla Francia. Il 10 giugno fu ratificata dal Parlamento Subalpino la cessione dei territori.