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 2010  aprile 20 Martedì calendario

ALLEATI E RESISTENZA NON CI FU MAI OSTILITA’

Nella maggior parte dei nostri libri di storia è depositata un’immagine dei rapporti tra gli Alleati e la Resistenza italiana secondo la quale tra il 1943 e il 1945 gli angloamericani, pur nel quadro di un’alleanza per battere nazisti e fascisti, diedero prova di una marcata ostilità nei confronti dei partigiani, quantomeno di quelli che consideravano sotto l’influenza dei comunisti. Le missioni dei servizi segreti alleati sono state accusate di aver operato più per controllare e imbrigliare il movimento partigiano che per sostenerlo militarmente. Ed è stata infinite volte sostenuta la tesi di un’evidente e comprovata discriminazione a danno delle formazioni azioniste e garibaldine (Pci) che avrebbero ricevuto un numero minore di aiuti perché ritenute politicamente meno affidabili. per dimostrare la falsità di questo assunto che è stato scritto’ e sta per essere pubblicato per i tipi del Mulino’ il volume Gli Alleati e la Resistenza italiana di Tommaso Piffer, che ha potuto consultare una mole davvero imponente di nuovi documenti messi a disposizione dagli archivi inglesi e americani.

Come è nata la leggenda di cui all’inizio? Ha scritto Claudio Pavone che già all’epoca i partigiani stessi non riuscivano a prescindere «dall’idea che gli eserciti inglese e americano erano pur sempre gli strumenti di due potenze capitalistiche e imperialistiche» e pensavano che si comportassero di conseguenza. Ad esempio per quel che riguarda l’esperienza dell’Ossola (la repubblica del Cln che si costituì tra il settembre e la fine di ottobre del ”44) a lungo la storiografia ha ritenuto di ravvisare un tentativo degli Alleati di liquidare la Resistenza italiana, incoraggiando i partigiani a liberare un’ampia zona per poi abbandonarli al conseguente attacco tedesco per ragioni di natura politica.
A ciò va aggiunta un’offensiva della propaganda tedesca dell’epoca atta a scoraggiare i partigiani, inducendoli a pensare che gli Alleati li stessero intenzionalmente lasciando soli. E quando il 13 novembre del 1944 il generale Alexander lanciò il celeberrimo proclama in cui comunicava ai combattenti la fine della campagna invernale, invitandoli a cessare le attività fino alla ripresa dell’offensiva in primavera, si diffuse l’impressione (come ha ben raccontato Ermanno Gorrieri nel suo avvincente libro su La Repubblica di Montefiorino, pubblicato dal Mulino) che gli Alleati avessero davvero abbandonato i partigiani al loro destino. E dubbi dello stesso genere affiorarono tra gli stessi Alleati. Scrisse Allen Dulles al colonnello Glavin appena quattro giorni dopo il proclama di Alexander: «Devo ammettere che la politica alleata nei confronti della Resistenza nel Nord Italia mi lascia un po’ perplesso… questi poveri diavoli, per la maggior parte, non hanno un posto dove andare e resteranno più o meno a gelarsi in montagna». Ma il libro di Piffer dimostra come gli effetti negativi di quel proclama furono molto minori di quanto si sia più volte sostenuto.
Negli anni Ottanta, a seguito della progressiva apertura degli archivi militari inglesi e americani, si cominciarono a editare, anche qui da noi, studi (ad esempio quelli di Elena Aga Rossi L’Italia nella sconfitta e di Massimo De Leonardis La Gran Bretagna e la resistenza partigiana in Italia, entrambi pubblicati dalle Edizioni scientifiche italiane) che mettevano in discussione la linea interpretativa di cui si è appena detto. Ma non sono bastati a demolire il pregiudizio. E Piffer con una qualche malizia riferisce in una nota (tratta da un documento) che uno degli storici a cui più si deve questo pregiudizio, Roberto Battaglia, già partigiano, prima azionista, poi comunista, autore di una delle storie della Resistenza più dure nei confronti dell’operato degli Alleati, aveva avuto nel 1944 contatti con i servizi segreti inglesi e che «a differenza di altri esponenti dell’antifascismo impiegati dagli inglesi era stato regolarmente retribuito». Curioso dettaglio.
Ma torniamo alla storia. Quando giungono in Italia, nell’estate del ”43, americani e inglesi non hanno una grande opinione dell’antifascismo italiano. significativo, come ha già notato la Aga Rossi, che nei tre volumi di raccolta della corrispondenza che Churchill e Roosevelt si scambiarono per tutto il corso della Seconda guerra mondiale non vi sia traccia dei movimenti di resistenza europei, eccezion fatta per qualche cenno alla Jugoslavia. Quando nel 1943 il regime fascista crolla a seguito della congiura interna il 25 luglio, gli inglesi si fanno la convinzione che in Italia non esiste «affatto un antifascismo degno di questo nome». Alleati e antifascisti sembrano non capirsi. Scrive Edgardo Sogno: «Gli inglesi non ci rimproverano il fascismo, ci rimproverano di aver fatto la guerra; e in questo fatto della guerra sentono che la colpa è tutta nostra. Gli antifascisti invece considerano la guerra come una conseguenza del fascismo, rimproverano gli inglesi di aver appoggiato il fascismo, quando loro l’hanno combattuto, e si sentono quindi in credito anche verso gli inglesi».
I capi italiani della Resistenza per di più sono molto franchi con gli Alleati, a cui rinfacciano apertamente già nell’autunno del ”43 di fare una «propaganda sfacciatamente monarchica e badogliana». Di più. Esponenti azionisti del Cln inviano una nota al ministro degli Esteri britannico Eden e all’ambasciata americana in Svizzera che contiene critiche per l’«indirizzo politico sostanziale rivolto ad accreditare presso il popolo italiano la monarchia e tutte le forze reazionarie che la sostengono». Tale indirizzo politico alleato, a detta degli azionisti, «non corrisponde né agli interessi contingenti della condotta della guerra né a quelli durevoli riguardanti il dopoguerra e la sistemazione politica italiana nel quadro della sistemazione generale dell’Europa». Riferisce Piffer che il tono di questo appunto appare così duro, i giudizi sugli Alleati così ingenerosi (per di più inseriti in un quadro in cui è del tutto assente l’esortazione alla lotta contro i tedeschi), che coloro i quali ricevono quella nota sono indotti a credere si tratti di un falso della propaganda nazifascista. Salvo poi dover riconoscere, qualche tempo dopo, che «sfortunatamente» quel testo è autentico.
Nel novembre del – 43 gli inglesi ricavano un’ottima impressione dal loro primo incontro con due leader azionisti della Resistenza, Ferruccio Parri e Leo Valiani (quest’ultimo successivamente, in un documento dei servizi inglesi, verrà definito «un nostro collaboratore»). Ma in un rapporto degli stessi servizi segreti del gennaio 1944 si può leggere: «I dati in nostro possesso in relazione ai cosiddetti gruppi di resistenza mostrano che (a) la maggior parte dei gruppi sono stanziati in località dove non sono effettivamente di disturbo al nemico; (b) lo spirito guerriero italiano è basso e la preoccupazione principale della maggior parte degli italiani è di evitare il servizio militare o il lavoro coatto e aspettare passivamente la liberazione da parte delle forze alleate; (c) le speranze che i prigionieri di guerra fuggiti possano rafforzare i gruppi di resistenza non sono pienamente giustificate…; (d) l’assistenza a questi gruppi di resistenza sarà utilizzata principalmente per mantenerli in vita piuttosto che per portarli all’azione ed è inverosimile che abbiano un qualche valore dal punto di vista militare fino a un ritiro dei tedeschi e nell’imminenza di un loro collasso».
E gli Alleati sono, per così dire, cauti nei confronti dei ribelli. Dai documenti, secondo Piffer, emerge inequivocabilmente che le formazioni che mostravano di essere in grado di arrecare danno ai tedeschi furono rifornite e appoggiate, le altre no. Ma nessuna «considerazione di lungo periodo determinò discriminazioni nei confronti delle bande partigiane». La documentazione mostra anzi come nella maggior parte dei casi le quote più ampie di rifornimenti siano state destinate alle formazioni garibaldine, che in genere erano considerate più combattive. Ciò accadde in Friuli, in Veneto, in Piemonte, in Liguria, in Emilia, per la zona libera di Montefiorino. Non solo. In alcuni momenti i responsabili dei servizi inglesi si mostrano «riluttanti a trasmettere ai comandi relazioni che mettevano in cattiva luce le formazioni comuniste, per timore che questo generasse una contrazione degli aiuti nei loro confronti e quindi li esponesse all’accusa di parzialità».
Anche a voler ignorare le evidenze documentarie, scrive Piffer, «è difficile pensare che gli Alleati abbiano seguito una politica discriminatoria contro la sinistra in Italia, mentre nello stesso periodo sostenevano le formazioni comuniste in Albania e consegnavano a Tito la Jugoslavia». E in effetti in Jugoslavia (a differenza di quel che fecero in Grecia) gli inglesi dopo aver sostenuto, tra il 1941 e il 1943, sia il generale nazionalista Mihailovic sia il comunista Tito, nell’autunno del 1943, cioè all’epoca nella quale in Italia iniziò la Resistenza, si schierarono interamente dalla parte di Tito. «Se davvero gli Alleati avessero ritenuto che il problema politico rappresentato dalla Resistenza italiana fosse stato una minaccia così terribile» scrive l’autore «avrebbero smesso di rifornirla abbandonandola a se stessa, come peraltro avevano fatto senza alcuno scrupolo qualche mese prima con le formazioni nazionaliste di Mihailovic in Jugoslavia». Invece «la rifornirono di armi e denaro, mandarono i loro agenti per coordinare le azioni, fecero piani per dare il miglior trattamento possibile agli uomini smobilitati». Per un quadro esauriente, rigoroso e obiettivo di ciò che accadde da quelle parti va letto il bel libro di Marina Cattaruzza L’Italia e il confine orientale (Il Mulino).
Ci furono invece tensioni tra americani e inglesi e questo può aver provocato qualche problema anche con il movimento partigiano Gli statunitensi, memori della Prima guerra mondiale, nel corso della quale avevano visto la Germania crollare poco dopo il loro arrivo sul campo di battaglia, pensavano che si dovesse al più presto aprire nel Nord della Francia un fronte attraverso il quale attaccare direttamente i tedeschi e giudicavano i britannici troppo «politici» nell’elaborazione della loro strategia militare. Gli uomini di Roosevelt, afferma Piffer, «ritenevano che gli inglesi avrebbero fatto di tutto per utilizzare le risorse americane non tanto per vincere la guerra, quanto per
preservare i propri interessi imperiali, trascinandoli quindi a combattere su fronti dove non era possibile raggiungere alcun apprezzabile obiettivo militare». Gli inglesi furono allo stesso modo diffidenti. «Noi vediamo gli americani come i greci vedevano i romani, gente forte, volgare, piena di energia, ma anche più oziosa di noi, con molte virtù naturali, ma nello stesso tempo più corrotta» scriveva il futuro primo ministro inglese Harold Macmillan in Diari di guerra. Il Mediterraneo dal 1943 al 1945 (Il Mulino). Pregiudizi e sospetti reciproci restarono all’ordine del giorno. Gli agenti inglesi, afferma Piffer, «imputavano agli americani di non avere alcuna conoscenza della complessa situazione politica europea e quindi di muoversi nel complicato mondo della Resistenza come degli elefanti in una cristalleria». In linea di massima, scriveva il responsabile dei servizi segreti britannici in Svizzera, John McCaffery, gli americani sono «gente semplice», o meglio sono «quello che i complicati europei definirebbero degli ingenui». A loro volta, scrive Piffer, «gli americani, sospettosi fino alla paranoia di inesistenti piani inglesi ai loro danni, rifiutarono ripetutamente la creazione di strumenti di coordinamento e l’invio di missioni miste».
 con gli inglesi che lo stato maggiore della Resistenza ha le polemiche più aspre. Dopo la svolta di Salerno e dopo che gli antifascisti italiani, su indicazione del segretario del Pci Palmiro Togliatti, hanno cessato di accusare Londra per il sostegno offerto a Vittorio Emanuele III, nell’estate del 1944 i rapporti tra Alleati e Resistenza si normalizzano. Tuttavia proprio in quell’estate da parte resistenziale si comincia a imputare sempre più spesso agli angloamericani la mancanza di lanci di armi alle formazioni partigiane. Il tono è spesso assai duro, inglesi e americani vengono accusati di «malafede», «subdoli calcoli politici», «machiavellismo». Si parla addirittura di «cattiva volontà che diventa delittuosa quando gli Alleati spingono al combattimento bande che non vogliono armare». Praticamente si accusano statunitensi e inglesi di aver provocato con i loro calcoli la morte di molti partigiani. Fino a che – agosto 1944 – McCaffery risponde al capo della Resistenza italiana, Ferruccio Parri, con una lettera di fuoco (già nota agli storici). «Da nessuna parte in un periodo di quattro anni ho avuto più lamentele che da voi. E nessun altro ha mai sognato di parlare di mire machiavelliche da parte nostra» è l’esordio di McCaffery. Il quale poi prosegue con parole da «amico» che intende «parlare chiaro». Scrive l’ufficiale inglese: «L’Italia ha subito il fascismo. Va bene. L’Italia è entrata in guerra contro di noi. Va bene. Malgrado tutta la buona volontà di Lei e dei Suoi amici sappiamo benissimo quanto ci è costato in uomini, in materiale ed in sforzi questa entrata in guerra dell’Italia. A causa delle nostre operazioni difficilissimema riuscite siete stati in grado di avere un colpo di Stato (in altre parole, se Mussolini è caduto il 25 luglio del ”43, lo dovete esclusivamente a noi, ndr)… Adesso avete avuto la possibilità di ritrovarvi e di finire accanto a quelli a cui l’Italia ha causato così gravi danni; nessuno più lieto di noi di questa possibilità, nessuno più pronto ad aiutarVi; ma, diamine, non pretenderete voi adesso di dirigere le operazioni militari invece di Eisenhower o di Alexander… avete voluto fare degli eserciti. Chi vi ha chiesto di fare così? Non noi. L’avete fatto per ragioni politiche e precisamente per ri-integrare l’Italia. Nessuno Vi darà la colpa per questa Vostra idea. Ma non date nessun torto ai nostri generali se lavorano almeno essenzialmente con criteri militari». L’italiano è incerto ma il senso della lettera è chiaro.
Da molti rapporti emerge un giudizio critico degli inglesi nei confronti del modo di muoversi dei partigiani, anche se i loro insuccessi vengono imputati «più alla mancanza di esperienza che alla mancanza di volontà di combattere». E ci si lamenta della percentuale molto alta di spreco di munizioni «determinata dal gusto che i partigiani provavano sparando sempre e ovunque, cosa che era impossibile tenere sotto controllo». Colpisce però il fatto che gli agenti inglesi e ancor più quelli americani’ a differenza di quel che hanno tramandato gran parte dei libri di storia – abbiano avuto in ripetute occasioni parole di lode per i comunisti italiani, così diversi da quelli che avevano conosciuto in Grecia e Jugoslavia, inclini questi ultimi a trasformare la guerra di liberazione in guerra civile. Al punto che, come notò Raimondo Craveri, se discriminazione vi fu negli aiuti da parte degli Alleati, essa fu «rovesciata», cioè a favore dei comunisti e a svantaggio degli altri.
Si registra infine verso la conclusione della guerra un ultimo motivo di conflitto tra Alleati e Resistenza, che si concretizza in una certa diffidenza sia inglese che americana nei confronti della «tumultuosa crescita» del movimento partigiano in quelle ultimissime ore. In un documento dello stato maggiore alleato del marzo 1945 così si parla dei «nuovi arrivati» tra i ribelli: «per la maggior parte gente che si è scoperta improvvisamente violentemente antifascista quando ha realizzato l’imminenza della fine del fascismo» e anche «quelli che hanno nel loro passato episodi che è bene far dimenticare». E si afferma: «Non c’è nessuna ragione per cui dovremmo accollarci una massa di convertiti dell’ultima ora che agiscono per portare a casa gloria o per partecipare ai benefici accordati ai veri patrioti». Ma questa, che meriterà ulteriori approfondimenti, è tutta un’altra storia.
Paolo Mieli