Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  aprile 16 Venerdì calendario

BARELLE VUOTE E FERITI EVACUATI. CHIUDE L’OSPEDALE DI EMERGENCY

«Stranamente» sabato a mezzogiorno della settimana scorsa gli italiani non avevano pranzato nell’ospedale. Quando gli agenti hanno fatto irruzione non li hanno trovati. Ma sembra che neppure li cercassero davvero. Il loro primo obbiettivo erano le armi e l’esplosivo che «sicuramente» sapevano essere nascosti tra gli scatoloni delle riserve di cibo nel deposito vicino alle cucine. E infatti in «neppure cinque minuti hanno trovato tutto ciò che volevano», raccontavano ieri mattina la decina tra medici e infermieri afghani ancora raccolti nel giardino dell’ospedale di Emergency. Appena sparsa la voce che era arrivato un giornalista italiano sono venuti di loro spontanea volontà a raccontare. Eppure stanno proprio in quegli «stranamente» e «sicuramente» che si condensano le mille ambiguità, paure, reticenze, incomprensioni, insomma il retaggio di un Paese in guerra da quarant’anni. E non una guerra chiara, con i fronti definiti e gli eserciti che si sparano dalle due parti. Bensì la paura del tradimento, l’incubo della guerra civile, del fratricidio, della fine della scolarizzazione, della povertà e dell’ignoranza alimentata dalle milizie che assoldano i dodicenni.
Così, quando prendi i quattro medici che, dal momento dell’apertura dell’ospedale nel 2004, hanno sempre lavorato fianco a fianco con i colleghi italiani, nessuno dice apertamente di ritenerli colpevoli o innocenti dell’accusa di collaborare con i talebani oppure, cosa ancora più assurda, ammettono loro stessi, di aver ordito il complotto per assassinare il governatore di Helmand, Ghoulab Mangal. Ma poi, quando tornano assieme agli altri, quando prevale la logica del gruppo puntellata dalla cultura del sospetto, allora gli «stranamente» e «sicuramente» tornano a fare capolino. «Stranamente gli italiani quel sabato a mezzogiorno hanno pranzato alla residenza di Emergency per gli espatriati e non alla mensa dell’ospedale come fanno sempre. Perché? Sicuramente non è stato un caso», insinua Khushhal, «chirurgo di guerra», decorato sul campo dall’esperienza di prima classe con l’Ong italiana. Eppure dai loro racconti emergono dettagli interessanti. Per esempio che nessuno tra il personale locale e internazionale dell’ospedale aveva notato alcunché di sospetto. Gli agenti della Direzione Nazionale della Sicurezza comandato da Amirullah Saleh, storico nemico numero uno di Gino Strada nel Paese, non avevano lanciato alcun segnale. C’erano talpe nella struttura? «Quasi certamente sì. Ma noi non le conosciamo » , risponde Fazlullah Mohammedi, anche lui chirurgo di guerra, che però sembra più franco degli altri perché accetta di riceverci da solo nel suo ufficio. E infatti le sue sono dichiarazioni controverse. «Non lasciatevi ingannare dalle apparenze. Nella provincia di Helmand il sostegno per i talebani èmassiccio, specie nelle campagne. Nelle città meno, anche perché imperano gli agenti dei servizi segreti. I delatori sono un fatto quotidiano. Nessuno dice quello che pensa. Per fare capire agli italiani posso spiegare che non ho illusioni sulle manifestazioni previste nel vostro Paese a favore dei prigionieri di Emergency. So che alla maggioranza degli italiani questa vicenda interessa poco o nulla. Così voi però dovete anche leggere le piccole manifestazioni di piazza tenute qui contro Emergency nei giorni scorsi. Sono visibili ma non rappresentano alcunché di rilevante», commenta attento.
Un altro elemento pare essere la casualità degli arresti. «Ci è sembrato prendessero chi capitava loro a tiro. Dei sei afghani messi in carcere solo due contano. Sardar Wali, da due anni impiegato nell’amministrazione. E Juma Ghul, capo delle guardie. I rimanenti quattro sono sentinelle, uno di loro è giovane, assunto da noi solo quattro giorni prima del blitz. Lo stesso vale per gli italiani. Hanno preso i primi tre che sono arrivati in auto, quando una nostra telefonata li aveva messi in allarme». Inevitabilmente paragonano il blocco dell’ospedale ai cinque, lunghi mesi del 2007, dopo le dure polemiche seguite alla liberazione di Daniele Mastrogiacomo. «Allora Emergency ci pagò i salari dei primi due mesi, poi restammo solo sperando nella riapertura. La paure erano tante, visto che tutti i centri di Emergency nel Paese erano stati chiusi. E non solo quello di Lashkar Gah come oggi». Dovrebbe essere un segnale positivo. Eppure qui ieri prevaleva una mesta atmosfera di sconfitta.
I motivi non mancano. La scena è a dir poco straziante. Mentre parliamo gli ultimi pazienti vengono lentamente evacuati. Due settimane fa la struttura era in piena attività. Quasi tutti occupati i suoi 66 letti, continue le visite quotidiane. Ora ne sono rimasti 9. E prima delle quindici l’ospedale è totalmente vuoto, i 240 dipendenti tutti a casa. La prime a partire sono state le donne. Restano quattro ragazzini, due poliziotti (di cui uno gravissimo verrà trasferito in serata a Kabul) e alcuni adulti, che hanno bacini e gambe rotte per gli scoppi delle mine. «Questa è una regione in guerra. E noi eravamo l’unico ospedale in grado di curare i feriti gravi e per giunta senza fare pagare nulla», sostiene greve il dottor Omayoun. Dal vicino ospedale provinciale giungono due ambulanze. I feriti sono caricati alla bell’e meglio su lettighe di fortuna e portati nella nuova struttura fatta di cameroni fatiscenti, sporchissimi, privi di personale medico specializzato. Adesso è veramente finita. Un capitano della polizia chiude il portone di ferro con la grande «E» rossa cerchiata. In lontananza, tra le periferie fatte di case d’argilla, si odono gli echi di una furiosa sparatoria, destinata a crescere con la notte. I feriti delle prossime ore non avranno più un posto dove andare.
Lorenzo Cremonesi