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 2010  aprile 22 Giovedì calendario

SOS AVVOCATI


Principi del foro e proletari della toga. Mastri oratori dell’arringa e cacciatori di controprove. Civilisti e penalisti. Amministrativi e tributaristi. Ricchissimi avvocati d’affari o difensori sottopagati dei più deboli. Solisti o associati. Il mestiere di avvocato tende sempre più a diventare un contenitore astratto che racchiude attività e ruoli molto diversi, spesso non confrontabili. Da uno studio milionario al piccolo ufficio individuale, cambiano non solo i redditi, la formazione e le specialità giuridiche, ma la stessa impostazione del lavoro, il rapporto con i clienti, l’immagine sociale e perfino l’autostima. La legge italiana considera tutti liberi professionisti, senza distinzioni contrattuali, anche se nella realtà continua a crescere il numero dei legali che devono obbedire ai superiori, concentrarsi su singole materie settoriali e produrre atti standardizzati, con tempi e ritmi da azienda multinazionale, se non da catena di montaggio. Mentre la recessione economica, oltre a tagliare le parcelle medie, allarga le disparità tra generazioni e tra sessi: i giovani e le donne sono mediamente più poveri e meno garantiti dei padri. Ai problemi che da sempre accompagnano un mestiere difficile, si aggiunge così un nuovo senso di crisi generale della professione, che spinge gli stessi rappresentanti dell’avvocatura a chiedere riforme profonde.

Primi in europa

"In Italia abbiamo più di 230 mila iscritti all’ordine degli avvocati, un numero che non ha paragoni in alcun paese europeo e che cresce ogni anno di circa 15 mila nuovi praticanti", spiega il professor Guido Alpa, presidente dal 2004 del Consiglio nazionale forense (Cnf), che riunisce i 165 ordini territoriali: "Proprio per tutelare la qualità del servizio e la dignità della professione, la nostra categoria ha bisogno di una selezione più rigorosa e di una formazione obbligatoria e continua". Di riforme necessarie parlavano già nel dopoguerra giuristi come Piero Calamandrei o il primo presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, avvocato. Ora, dopo circa 800 progetti di legge arenati in parlamento, vuole provarci il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che ha convocato a Roma gli ’stati generali delle professioni’ con una promessa: riformare tutti gli ordini "entro il 2013", usando come modello proprio le nuove regole per gli avvocati.

L’anomalia più vistosa è il numero. Secondo il Consiglio europeo dei legali (Ccbe), l’Italia ha il quadruplo degli avvocati della Francia e circa 70 mila in più della Germania, mentre nessuno dei 15 stati censiti da quell’organismo di Bruxelles ha una quantità di legali paragonabile alla nostra. Il disegno di legge che da marzo è in aula al Senato prevede un giro di vite, ma senza numero chiuso. Le novità, come riassume il presidente Alpa, comprendono "un test per iniziare il tirocinio, la frequenza ai corsi di formazione in ottanta scuole forensi riconosciute, una preselezione informatica dei candidati e altri limiti all’insegna del merito e del rispetto del cliente". Come lo stop all’andazzo di troppi avvocati di farsi sostituire nei processi da giovani praticanti pagati poco o nulla.

I furbi del foro

In attesa di future barriere, la farsa degli esami in trasferta - le famose nidiate di laureati padani diventati avvocati in Calabria, tra cui spicca il ministro Mariastella Gelmini - è stata solo in parte ridotta dal cambio di esaminatori: oggi i candidati dei 26 distretti vengono giudicati da commissioni di altre città. Con qualche strano incrocio. Nel 2008, ad esempio, le prove di Catanzaro sono finite a Palermo e viceversa. E lo scambio si è ripetuto tra Reggio Calabria e Lecce. Risultato: più del 51 per cento di promossi. Sarà un caso, ma dove non c’è incrocio reciproco tra due distretti, aumenta il rigore: Roma ha considerato "idonei" solo 19 milanesi su cento, Cagliari appena il 12 per cento dei 906 candidati bresciani.

Limitata in patria, la migrazione dei praticanti legali si è spostata d’incanto in Spagna, dove non c’è esame di stato (almeno fino all’anno prossimo): di qui un’ondata di circa 3 mila ’abogados’ italianissimi. In mancanza di un divieto legale (sulla giustizia il nostro Parlamento ha ben altro da fare), il Consiglio nazionale forense, nel giugno 2009, ha "invitato" gli Ordini ad applicare, "per analogia", una sentenza della Corte europea che aveva bocciato il trucco iberico tentato da un ingegnere italiano. Da allora, secondo il Cnf, i candidati al "ricoscimento" del titolo comunitario di avvocato sono scesi a 33. E solo sette hanno superato gli scritti.

Tariffe e cRISI

Il testo di legge che Alfano ha garantito di sostenere contiene anche altre svolte. Prima di tutto, si torna alle tariffe minime obbligatorie, che il decreto Bersani aveva abolito nel tentativo di ridurre le parcelle. Il ministro promette che saranno "più eque e razionali". Gli avvocati del Cnf sottolineano altre due novità: "La formazione permanente, con l’obbligo di frequentare corsi di aggiornamento per tutta la carriera"; e la "commissione disciplinare unica", per evitare che i legali possano continuare a eleggere gli arbitri locali che dovrebbero punire le loro colpe disciplinari. Gli avvocati-deputati, peraltro, si sono prontamente auto-esentati dagli obblighi di formazione. Mentre il presidente del Senato, l’avvocato Renato Schifani, è contrario al doppio test d’ingresso. E tra le varie associazioni forensi, dalle camere penali (il sindacato delle toghe) ai giovani avvocati (divisi in due organizzazioni), non mancano ulteriori distinzioni: toccherà alla maggioranza mediare.

Di certo la crisi è pesante anche per gli avvocati. Gli iscritti alla cassa forense hanno visto diminuire sia i redditi che il volume d’affari per la prima volta da decenni: tra il 2007 e il 2008 ogni avvocato italiano ha perso mille euro di parcelle dichiarate per l’Irpef (meno 1,9 per cento). Il professor Alpa spiega che "la crisi colpisce soprattutto gli studi di consulenza aziendale o societaria, il settore bancario e finanziario, ma anche le pubbliche amministrazioni". Gli avvocati dei grandi studi di Milano e Roma citano casi di "aziende sane che hanno tagliato le spese legali dell’80 per cento".

"Il numero di cause in realtà cala di poco, ma aumentano moltissimo le richieste di ridurre le parcelle e dilazionare i pagamenti", precisa Sara Turchetti, giovane avvocata dello studio Biancolella, che si è assunto la difesa impossibile di Calisto Tanzi nel crack Parmalat. Confermando la crisi, Nicola Madia, che a soli 35 anni è la prima parte civile nel processo per la bancarotta Cirio (dove il banchiere più potente d’Italia, Cesare Geronzi, è sotto accusa con Sergio Cragnotti per i bond da 700 milioni), introduce una variabile geografica: "Nelle sedi dove la magistratura è più efficiente e i processi più veloci, i clienti continuano a chiedere giustizia, anche nel civile, e gli avvocati sentono meno la recessione. Dove invece i tribunali funzionano peggio, le stesse parcelle appaiono meno accettabili, ma il problema più grave è che molti cittadini rinunciano a far valere i propri diritti. E questo è un danno per tutti, non solo economico".

I proletari della parcella

Stretti fra crisi, precarietà del lavoro e maxi-studi che tendono a trasformarsi in fabbriche di atti o anonime filiali di multinazionali del diritto, i giovani e le donne sono gli avvocati meno pagati e tutelati. Nel 2007, dunque già prima della crisi, i legali delle prime due classi di età (da 24 a 29 anni e da 30 a 34) guadagnavano, rispettivamente, una media di 13 mila e di 21 mila euro all’anno: da cinque a dieci volte di meno dei redditi dichiarati invece dagli uomini al culmine della carriera (circa 110 mila euro nella fascia tra 54 e 69 anni). Le avvocate delle regioni meridionali vengono pagate circa la metà delle loro colleghe del Centro-Nord (15 mila euro l’anno in Basilicata, 16 mila in Calabria, 19 mila in Puglia, Sicilia e Molise, 31 mila nel Lazio, 40 mila in Lombardia, 42 mila in Alto Adige), che a loro volta incassano meno del 50 per cento delle parcelle incamerate dalla media dei maschi (83 mila euro nel Lazio, 113 mila in Lombardia).

Per valutare il peso di queste discriminazioni, va ricordato che si tratta di dati medi, per cui i redditi inferiori sono ancora più umilianti, e che comunque rappresentano i soli avvocati che pagano i contributi previdenziali. I legali iscritti alla cassa forense, infatti, sono circa 154 mila (compresi oltre 6 mila associati agli elenchi per dipendenti pubblici e docenti), mentre l’ordine, nel 2009, è arrivato a contarne più di 230 mila. Questo significa che circa 75 mila avvocati non si finanziano neppure la pensione. possibile che questa cifra nasconda anche la cronica patologia italiana dell’evasione fiscale totale: un problema aggravato dall’abolizione dei divieti di farsi pagare in contanti. Ed è probabile che molti iscritti all’ordine siano avvocati solo di nome, che di fatto non esercitano. Certo è che, tra quei 75 mila, compaiono migliaia di professionisti liberi solo di accumulare frustrazioni: soprattutto giovani e donne che rischiano di restare senza pensione perché guadagnano meno del reddito minimo per versare i contributi. Una massa di sottoproletari della toga che è in crescita: nel ’98 erano in regola con la previdenza sociale 77 mila avvocati, su un totale di 96 mila. In dieci anni, dunque, il numero dei legali senza pensione è quasi quadruplicato.

L’immagine e la sostanza

Umberto Ambrosoli, giovane avvocato milanese che ha condensato in un libro bellissimo (’Qualunque cosa succeda’, editore Sironi) la moralità di una professione che è costata la vita al padre, l’eroe borghese assassinato da un mafioso per ordine del banchiere Michele Sindona, conferma la "sensazione generale" di uno "scadimento qualitativo": "Sono cambiati i ritmi di lavoro, i processi sono meno concentrati e c’è sempre più specializzazione, con il rischio di ritrovarsi con una specie di paraocchi che ci fa guardare solo un settore e trascurare le basi generali del diritto. Si è rotto qualcosa anche nel rapporto con i magistrati: mi sembra che ci sia meno rispetto e fiducia reciproca, sentiamo qualche pm dire che l’avvocato è parte, per cui mente per definizione. Altra insidia gravissima è la routine che diventa pigrizia, rifiuto di ascoltare il cliente e i colleghi: a fare la differenza è ancora la capacità di studiare, l’impegno a un costante aggiornamento, la volontà di non trascurare mai le ricadute umane di un lavoro che è un servizio. Penso che la crisi più grave oggi riguardi la formazione. Un civilista mi raccontava che alla sua prima pratica, 25 anni fa, fece una citazione in francese: il giudice gli rispose nella stessa lingua, la controparte pure e l’intero processo proseguì in francese. Non era un’ostentazione, ma una condivisione di un livello culturale che oggi purtroppo è raro. Personalmente ho la fortuna di lavorare in uno studio con un vero maestro".

Una ricerca del Censis ha sfatato molti pregiudizi sull’immagine sociale dell’avvocato. Se la stampa, interessata a delitti di sangue, scandali economici e corruzione politica, tende a presentarlo come personaggio di parte, pronto a qualsiasi cavillo per favorire un colpevole, più di metà dei 1.500 clienti interpellati nel 2008 cercavano solo una consulenza e 53 su cento come parti lese. Ogni cento assistiti, 87 hanno lo stesso avvocato da dieci anni e solo 6 lo hanno cambiato per tariffe giudicate troppo esose. Decisivo è invece il rapporto di fiducia con il singolo professionista e il modello dominante resta ancora il piccolo studio. Il problema più grave, secondo due terzi dei clienti, è che gli avvocati sono troppi. E che tra loro ci sono troppi politici. Ma con tanti deputati togati, la legalità è migliorata almeno tra i legali?

L’avvocato Ambrosoli, onestamente, ne dubita: "Probabilmente una volta era più chiaro il confine anche interiore tra il lecito e l’illecito. Credo che il senso di disvalore morale rispecchi in tutto e per tutto l’evoluzione generale della società".